Ci sono storie che vanno raccontate ed altre che vanno ascoltate. Per il piacere di sentire la storia, per provare a muoversi all’interno della vicenda e per capire, soprattutto, quella storia come finisce e se finisce. Roberto Bolognesi, con il suo primo romanzo Tutto e niente, Condaghes edizioni, (aveva scritto, sinora solo ottimi saggi anche se, occorre ribadirlo, come blogger ha dato prova di avere “tra le corde” l’arte del racconto) ci trasporta dentro un pezzo di Sardegna non riconoscibile a prima vista, che si confonde tra le piatte pianure olandesi e uno spruzzo intenso di Israele, Gerusalemme soprattutto, che ha gli stessi colori densi di Cagliari al tramonto. C’è un articolo per un giornale da scrivere, un pezzo su un probabile santone, “il santo di Montebentu” che ha guarito un attore famoso Peter Mainfield. Un giornalista cerca un’intervista rivelatrice con questo strano personaggio. Apparentemente non ci riesce ma si accorda per lasciare il registratore, senza domande. Il santone, se vuole risponderà. Ed ecco che il giornalista si trova davanti la confessione di un uomo che ha quasi la necessità di raccontare la sua vita. La vicenda potrebbe sembrare, a prima vista, “boccaccesca” o, a voler scomodare modelli più moderni, Bukowskiana. E, a dire il vero, si cammina nudi dentro questa storia, si fa all’amore liberamente, ci si tocca nelle parti intime e si beve, seppure non smodatamente. Però questa storia ha un’altra necessità, apparentemente non dichiarata: intende occuparsi della solitudine, dell’amore, della religione, dei rapporti tra uomini e donne e per farlo Bolognesi costruisce un viaggio intenso, pieno di incroci dove il protagonista Giagu Marracciu deve, in qualche modo, ricercare la sua identità. Sposato senza aver consumato il matrimonio per colpa delle smisurate misure del suo pene e con un soprannome che spiega davvero bene il concetto: “tuttominca”, è costretto ad un annullamento di matrimonio da parte della Sacra Rota, seppure innamorato della moglie. Incontra ad Amsterdam Molly, un nuovo e intenso amore non corrisposto. Anche Molly ha dei problemi a gestire quel pene che la fa soffrire. Quell’oscuro oggetto del desiderio per molte altre donne diventa la condanna per le uniche due che lui ha amato davvero. Giagu ci racconta e ci trasporta in incontri con molte donne, in un crescendo di falsa lussuria: si rende conto di essere dannatamente solo e quella terribile desolazione è legata a dover essere, a tutti i costi, “uomo oggetto”. Sarà Judith a salvarlo, a trasportarlo in un altro mondo, in Israele, a Geruslalemme. Saranno quei colori, quei rumori, quella paura che hanno gli israeliani di perdere sempre tutto, di giocare la propria vita solo ed esclusivamente sulla sicurezza, a modificare il corso delle cose. E scoprire perché Giagu Tuttominca diventa “il santo di Montebentu”. Leggendo, tra le pagine, ci si rende conto che questa era una storia “necessaria”, un gioco sottile tra il mondo maledetto, sotterraneo e molto americano raccontato da Bukowski e il mondo incantato di Josè Arcadio Buendìa II e il suo uccello, anch’esso mostruoso. E allora capisci subito tutto. Il gioco sottile di Roberto Bolognesi è quello di ridisegnare gli spazi tra la Sardegna e Macondo, tra Giau e Josè Arcadio. La musica che cammina dentro le pagine può essere una collezione tra i vecchi Eagles, qualche spruzzo di Intillimani e molto John Coltrame. Bolognesi ha uno sguardo indefinito e gioca con le parole. Sa dosare e sa raccontare. Ma ha un grande difetto: non ama dilungarsi. E’ tagliente, veloce, istrionico. Il nostro Giagu tuttominca sparisce troppo in fretta e ci lascia con troppe domande. Ma, in fondo, ha ragione Bolognesi quando racconta la Sardegna, Morgolo (che ricorda anche onomatopeicamente Macondo): “A Morgolo nessuno aveva il diritto di cambiare. Tutti dovevano restare al loro posto, quello che ti hanno assegnato da bambino, che ti spetta quasi per nascita, perchè se cambia uno di loro devono cambiare tutti. Io non volevo restare Giagu “lo storpio” solo per far contenti i morgolesi.” Giagu alla ricerca di una nuova identità e, come Josè Arcadio Buendia, diventa “immortale”, diventa custode di ricordi e dispensatore di storie. La sua vita solitaria intrecciata a molte altre vite che, in fondo, non producono molto rumore.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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