Con le emergenze non si scherza. E quando arrivano le emergenze, occorrono misure drastiche, anche se dolorose. E’ questo il principio che ha mosso le strategie delle istituzioni in relazione alla epidemia di xylella, il batterio killer che non lascia scampo agli oliveti, e che si è diffuso nelle storiche coltivazioni della Puglia, con danni economici enormi, in un settore dell’agroalimentare già in crisi. Il rischio di una diffusione del terribile batterio è infatti da scongiurare e, per prima, l’Europa ha invitato le istituzioni italiane a adottare tutte le precauzioni possibili, compresa la distruzione delle piante in un raggio di duecento metri da quella contagiata. La notizia di questi giorni però alimenta alcuni sospetti. La Procura delle Repubblica di Lecce ha indagato ben undici persone, in pratica tutti coloro che stavano gestendo l’emergenza che, com’è noto, ha provocato un caso mediatico, polemiche a non finire e la ribellione dei gestori degli uliveti contrari all’abbattimento delle piante. Al netto delle tesi complottiste, degli scenari da guerra batteriologica, la magistratura farà chiarezza anche su aspetti piuttosto scabrosi della vicenda che coinvolgono persino gli scienziati che da tempo studiano il difficile problema. Sono certo che chiariranno la loro posizione e potranno riprendere le loro ricerche. Tuttavia, da antropologo che studia le interazione tra l’uomo e l’ambiente, alcune cose mi preme dirle. Due cose di questo batterio mi hanno colpito. La prima è che attacca soprattutto piante vetuste e già malate. La seconda che non risulta che attacchi piante selvatiche. Attacca solo cultivar in ecosistemi artificiali, cambiando spesso il vettore, l’insetto che contagia. In particolare infetta gli impianti agronomici più industrializzati, come gli uliveti, le vigne, gli agrumeti. La cultura moderna, razionalista, euclidea e cartesiana, tende alla separazione dei saperi. Nel corso della storia del sapere umano, il principio di specializzazione ha preso il sopravvento. Più si approfondiva un argomento, infatti, e maggiori erano le possibilità di giungere ad una maggiore somma di conoscenze complessive. Gli indubbi vantaggi di questa separazione, hanno creato una miriade di materie che tra loro non dialogano, a scapito di una conoscenza globale, “olistica”, di un determinato fenomeno. Nel campo dell’agricoltura, lo spiegano bene scienziati come Vandana Shiva e storici come Piero Bevilacqua, la separazione dei saperi, in servaggio ad una economia dal tornaconto immediato, ha estrapolato il campo agricolo dal contesto, trasformandolo in un supporto neutro, un suolo privo di significative interazioni biologiche, mantenuto artificialmente da sostanze chimiche. Per lunghi millenni, prima dell’industrializzazione dell’agricoltura, l’uomo aveva creato un sistema agricolo che, per quanto artificiale e precario, si reggeva in equilibrio. La rotazione tra cereali, leguminose, pascolo e riposo garantiva quel ciclo produttivo con la fissazione delle sostanze minerali e organiche nel terreno e la concimazione naturale con le deiezioni degli animali. Il bosco che resisteva attorno al campo agricolo garantiva la produzione di fertilizzante naturale, l’humus, la regimazione delle acque, e la presenza di una catena alimentare (si pensi all’ornitofauna insettivora), che rendeva biologico l’ecosistema. Uomo, contadini e pastori, animali domestici, animali selvatici, piante coltivate, bosco, insetti, microrganismi, batteri e funghi costituivano un ciclo vitale dove le forze contrastanti tra di loro tendevano necessariamente ad un equilibrio il più possibile stabile. Con la visione agronomica fisiocratica e lineare, e con l’industrializzazione delle campagne, il ciclo agrario è stato interrotto definitivamente. Il bosco è stato sostituito con i fertilizzanti e i pesticidi industriali, e la rotazione è stata sostituita da una coltivazione intensiva dove alla sostanza organica si sostituiva quella minerale di origine chimica. Il terreno ha finito per essere sfruttato senza rotazioni e riposo fino alla sua quasi totale necrosi. L’imperativo dell’agricoltura industriale è il principio edonistico, massimizzare la produzione con il minor costo possibile, per reggere la sfida del mercato. Fino all’esaurimento del bene. Appena è esploso il caso xylella si è scatenata la caccia al batterio killer. Pare che quello isolato in Puglia sia gemello di un batterio individuato in Costarica. Le varie sottospecie del batterio, in questi anni, hanno imperversato in mezzo mondo attaccando, con diversi vettori, la vite, gli agrumi, e altri alberi da frutto e piante ornamentali. Solo recentemente ha attaccato l’olivo. Tutto il contesto, la storia del territorio e di quel suolo, le interazioni tra esseri viventi, non sono state prese in considerazione se non da alcune voci isolate, alcuni scienziati che hanno posto l’accento del problema sugli aspetti ecologici, si pensi all’uso del glifosato della Monsanto, un diserbante ampiamente usato in agricoltura e accusato di provocare il cancro nell’uomo e di indebolire gli ulivi. E’ probabile che questa forma batteriologica si stia trovando bene con piante indebolite dalla vecchiaia, da suoli poveri, da un uso massiccio di sostanze chimiche, situate in sistemi fortemente artificiali. Il caldo di questi anni, poi, dovuto anche ai cambiamenti climatici provocati dall’uomo, sta favorendo l’insorgere di malattie di natura parassitaria. La separazione dei saperi, che concentra l’attenzione sulla fenomenologia, ci impedisce di interpretare la presenza di un batterio in un organismo come naturale, come la conseguenza di una normale interazione. La natura ha inventato i microrganismi parassiti, che convivono negli organismi più grandi, con uno scopo preciso. Quello di operare una selezione naturale sugli organismi deboli, vecchi e malati, in modo da selezionare e rendere più forti le specie. Nulla in natura è nocivo, inutile e casuale. La xylella è un batterio parassita che, in questo momento, è un indicatore di stress di un sistema agricolo, quello degli ulivi pugliesi e italiani, che ha terminato, probabilmente, il suo ciclo produttivo e che andrebbe rinnovato, pena il decadimento irrefrenabile. Sarebbe un vero peccato: gli uliveti rappresentano una delle maggiori eccellenze del settore agroalimentare, ma non solo. L’olio d’oliva è il principale ingrediente di quella Dieta Mediterranea che consente alle persone che vivono in questa parte del mondo di godere di maggiore salute e di campare più a lungo. Non è caso è considerata patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Per cui c’è un sistema di valori non solo economici, ma anche culturali e paesaggistici, da salvare. Questo sistema di valori non lo si salva scapitozzando e sradicando le piante, ma curando, ringiovanendo e soprattutto rinaturalizzando la filiera produttiva dell’olio, che deve tornare ad essere ecosistema. Ci sono già dei validi esperimenti condotti da valenti scienziati che ragionano secondo una visione “olistica” del fenomeno. La xylella, in definitiva, è come il nostro herpes che compare sul labbro a indicarci che siamo stanchi, stressati, un po’ stravolti per qualche ragione. Ma il virus dell’herpes, convive, com’è noto, nel nostro organismo pacificamente, e riemerge quando il sistema immunitario è indebolito per qualche ragione. E’ un indicatore di stress, ci indica che dobbiamo riposarci e metterci un poco tranquilli. Ecco, la xylella ci sta dicendo questo, secondo me. Che quegli uliveti sono ormai esausti, non ce la fanno più. Il terreno deve essere nuovamente ricondotto alla sua naturalità con sistemi ecologici, ricreando quelle condizioni vitali con deposito di sostanza organica e riproduzione delle interazioni biotiche. E gli uliveti dovrebbero essere ufficialmente promossi dallo Stato come bene culturale da salvaguardare. E tutti noi dovremo dare la giusta importanza ai prodotti che ci aiutano a stare bene, facendo qualche piccolo sacrificio, attribuendo il giusto valore alle cose, che la salute non ha prezzo, e l’olio di oliva è salute. E sono sicuro che la xylella se ne tornerà tranquillamente da dove ne è venuta.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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