Quello che gli stazzi raccontano.
Sono gallurese. Quella terra è la mia terra. Ho scorazzato, da ragazzino, negli stazzi, tra le pietre levigate e il muschio, tra le arnie di minnannu e i cani che cercavano pernici. Ho assaporato tutto di quella terra e me la porto dentro, involucro dell’anima. Sono gallurese. Lo stazzo è stato la cornice della mia infanzia. Il mondo dove ho camminato e mi sono sentito infinitamente libero. tra Priatu e Austinacciu, ad un tiro di schioppo da Olbia che, secondo Zio Linaldeddu, non è Gallura. Sono gallurese. Ed ogni goccia di pioggia che cade su quel terreno mi sfiora il corpo e inonda tutto di imprevedibilità. Ho camminato tra i confini di lu Vaccileddu e Pirrigheddu, tra Monte Pinu e lu Lamaddjoni, ho respirato quella terra e quei colori. Ho rincorso il vento e le farfalle che si depositavano nella “balza” dell’orto, gonfio di angurie e pomodori. Sono gallurese e ho compreso, da piccolo, che la sopravvivenza è un bene da non barattare con nessuno. Che le case si costruiscono in un certo modo e con una certa lungimiranza. Meglio in collina, per esempio, che non alla fine di un altipiano. Lo stazzo dei miei nonni lo vedi dalla strada, così come quello di frati Focu e di ziu Linaldeddu, quello che continua a ripetere che Olbia non è Gallura. Sono gallurese. Il 18 novembre 2013 ho ascoltato quel rumore intenso che può produrre l’acqua e la distruzione immensa che ha prodotto. Non ho detto nulla. Ho visto gli occhi delle persone e mi son chiesto: “Dov’è il confine tra la fatalità e l’errore?” E’ ritornata ieri quella domanda, forte e intensa. E’ ritornata perché è il punto di partenza, il disegno arcaico mai analizzato fino in fondo. Abbiamo costruito dove non era possibile. Lo abbiamo fatto senza chiedere nulla, poi ci sono stati i condoni, le autorizzazioni, i protocolli, le sanatorie. Ma non abbiamo chiesto il permesso al corso naturale degli eventi. Tutti convinti che bastava un timbro, un protocollo a fermare l’acqua e il corso della vita. Abbiamo scoperto che non è così. Non sarà mai così. E adesso, dopo quell’acqua e quel fango del 2013, ci ritroviamo a ricucire le ferite negli stessi luoghi dove erano già state curate. Sono riapparse. E non è il destino. No, non lo è. Quell’acqua ci racconta gli errori accumulati negli anni. Sono gallurese. Ma non vivo di ricordi. Però la memoria va coltivata. Se passate negli stazzi, da Aggius a Tempiu, da Arzachena a Sant’Antonio, da Priatu alla Macchia Manna scoprirete che tutti, ma proprio tutti sono adagiati sopra una piccola collina. A guardare il cielo e a raccontare quanto è importante scegliere il posto giusto, tra la collina e il sole.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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