Una corrente di pensiero interpreta il litigio condito da insulti tra Sarri e Mancini come un pericoloso precedente: non per la gravità dell’insulto “frocio” indirizzato all’allenatore dell’Inter, ma perché viola la regola non scritta (ma unanimemente rispettata) della “impermeabilità” di campo di calcio e spogliatoi.
Sarebbe a dire che quel che succede tra i calciatori e panchine durante una partita dovrebbe restare tra loro e ogni scoria dissolversi al triplice fischio finale, senza che al di fuori se ne sappia nulla. I vaffanculo e le insinuazioni sulla morigeratezza delle rispettive madri che i contendenti si scambiano durante il confronto – ve lo dirà chiunque abbia avuto esperienze agonistiche- dovrebbero restare episodi riservati.
Ora, questi addetti ai lavori hanno gioco facile quando si tratta di spiegare la regola dell’inviolabilità di fatti che accadono negli spogliatoi: è un ambiente privato, una casa, un luogo che ha diritto, proprio perché fisicamente delimitato e vietato agli estranei, ad una propria privacy. Quando invece chiedete loro perché questa intesa valga anche fuori dagli spogliatoi, davanti a migliaia di spettatori, non sanno esattamente rispondervi e spesso se la cavano dicendo che è sempre stato così. In genere tacciono, invece, se gli fai notare che questi scazzi sono spiegabili tra i giovanotti che si scalciano e rincorrono in campo, meno tra maturi signori che in giacca e cravatta guardano la partita con le mani in tasca. In ogni caso, i permissivisti trovano più censurabile lo strappo alla regola di Mancini dell’insulto omofobo di Sarri. Sia chiaro che chi scrive non ha alcun interesse a difendere Mancini. Il quale, a quanto pare, è incappato nello stesso infortunio di Sarri, qualche anno fa. Io discuto dell’insopportabile violenza verbale nello sport e di questa tendenza a lasciar correre tutto, perché tanto nello stadio tutto si può.
Per come la vedo io, ritenere più grave la denuncia di un’offesa rappresenta una sconfitta, il naufragio di chi cerca da anni di rendere gli stadi luoghi normali, dove le regole della civiltà e dell’educazione dovrebbero valere esattamente come valgono al di là delle tribune. Luoghi a misura di bambini e famiglie, come la loro natura suggerirebbe. Invece no, lo stadio ormai è riconosciuto come zona franca: vale tutto, nulla di quel che si dice si deve sapere e chi si azzarda a parlare passa per infame, secondo il codice dei penitenziari.
Non vado allo stadio da anni, perché non riesco più a sopportare gli insulti ad arbitri e avversari e ancora meno reggo la visione di pacifici impiegati del catasto che alla domenica si trasformano in iene con la bava alla bocca. Ricorderei anche che sulle tribune prendono posto centinaia o migliaia di bambini, a seconda del rilievo del match, ai quali la competizione sportiva apparirà fin dal primo momento come una guerra volta all’annientamento dell’avversario. Se andate ad assistere ad una partita tra ragazzini – lo dico per esperienza – vi troverete immersi nello stesso clima infuocato di un derby.
In un campo da calcio parolacce e minacce ce ne saranno sempre, mica ci si può illudere del contrario. Però mi sembra il colmo crocifiggere il Mancini di turno, quello che un bel giorno esplode e spiffera tutto: anche un allenatore milionario può sentirsi offeso da un collega maleducato, per quanto strano possa sembrare. E mai bisogna stancarsi di ricordare a questi vip dello sport che i loro comportamenti sono esempi oggetto di emulazione, il che li obbliga al buon senso.
Anni fa, al termine di una concitata partita, un calciatore della squadra avversaria provocò il mediano uruguaiano del Cagliari sfottendolo per la figlia disabile. Ne seguì una scazzottata e inevitabilmente la spregevole battuta dell’omuncolo in tenuta da calcio divenne di dominio pubblico. Secondo la regola del silenzio, aver reso pubblico un fatto così grave avvenuto in campo rende il mediano uruguaiano più colpevole di colui che ne aveva deriso la figlia disabile.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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