Acqua e dolore in terra sarda
Acqua. Per chi ha sete e non arriva. Per chi ascolta quel rumore sordo, di pioggia e di dolore, quasi fossero tutte le lacrime del mondo a cadere sulla nostra terra, arida e silenziosa, oggi inzuppata di angoscia e di tristezza. Acqua. Sembra il mare conosciuto, onde di acqua dolce, spruzzi che non chiedevi ad avvolgere ogni cosa, a diventare strade e a schiumare la speranza. Acqua che la senti, dalle montagne sbattere sugli alberi e sul cisto e sul mirto e sulle case e sulle colline e sulle spiagge e sugli arenili e sul cemento, quasi a voler cancellare quello che l’uomo, negli anni ha disegnato, quasi a voler riportare, attraverso la purificazione dell’acqua, quello che c’era stato. E sono piccoli lamenti nel grigiore di un cielo denso, sono autoarticolati a pestare tutta l’acqua riversa sulla strada, mentre le auto, mute e con lampeggianti accesi osservano quell’onda che cammina. Ed è vena rigogliosa, ricerca una via d’uscita e dobbiamo spiegarlo a quest’acqua e a queste nuvole che non lo faremo mai più, lo avevamo giurato a Capoterra quando, anche quel giorno, contavamo i morti e mischiavamo le nostre lacrime ad un acqua diventata fango. Dobbiamo spiegarli i nostri errori, le nostre cantine, i fiumi sotterrati, le nostre case vista mare e vista cielo e vista acqua e vista morte. Dobbiamo provare a spiegare che le radici tengono e raccolgono e mantengono, ma noi le radici non le abbiamo più e quelle poche che ci rimangono riusciamo a mangiarcele con il fuoco. Siamo acqua e fuoco, fango e solitudine e ci accasciamo in questo terribile silenzio funebre a contare e ricontare i morti. I bambini, gli operai, le donne. Urla in un deserto di facce lavate da lacrime e dall’acqua, di facce con troppe rughe, segnate dall’indifferenza di tutti. Non provateci, non provateci ad essere contriti, ad essere falsamente tristi voi, con le lacrime acquistate a basso prezzo, con quelle frasi di circostanza, con quell’essere in prima fila davanti a tutte le bare per poi dimenticarne anche il colore di quel legno. Non provateci e non permettetevi di affermare che è stato il fato, un Dio cattivo o un disegno divino. Non provateci. Osservate le mani nodose di tutti i sardi, osservate i nostri occhi, osservatene il dolore. Oggi non è tempo per la pietà, per le parole di circostanza. Oggi, son rimasti i nuraghi a contemplare tutto il misfatto e una ragione ci deve pur essere se queste pietre senza cemento continuano a osservare silenti i nostri errori. Oggi è tempo di pesare i cuori pesanti e assorti, feriti e addolorati ma pulsanti. Altre rughe sulla nostra pelle riarsa dai fuochi e affogata nell’acqua e nel fango. Rughe composte e profonde che non si lavano con l’acqua. Perché la memoria ha un peso specifico, perché la sofferenza ha un diametro largo che ci abbraccia tutti. Almeno per oggi.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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