I funerali di Vittorio Casamonica, capo mafia romano, fanno giustamente discutere. Quando muore un boss, ci vuole un bel funerale; d’altra parte se un fenomeno mafioso è radicato, ogni istituzione, ogni singolo cittadino, ogni forma di vita umana ne subisce i condizionamenti. La Chiesa, come ogni altra realtà umana, può anche provare a resistervi con fatica (penso a Don Puglisi, a Don Diana, a Don Ciotti e alle parole dello stesso Papa Francesco) ma è frequente che decida di non resistere e di amministrare il rapporto con la mafia in modo opportunistico.
Però c’è dell’altro.
Giustamente molti hanno fatto notare che quella stessa parrocchia rifiutò a suo tempo i funerali religiosi a Piergiorgio Welby. Per chi non ricorda o non sa, dico solo che Welby, reso immobile da una grave malattia, era un sostenitore dell’idea che ognuno di noi ha diritto di porre fine alla propria esistenza, specialmente se pensa che quel vivere non faccia più per lui (o lei).
Non so se Welby e Casamonica fossero credenti. E credo sia difficile per chiunque saperlo con certezza, qualunque cosa ciò significhi. Però posso supporlo, perché per entrambi si è arrivati a un certo punto a dover organizzare il rito funebre cattolico. E il punto non è dunque perché il funerale di Casamonica è stato così spettacolare; per quello bisognerebbe ragionare sul radicamento della mafia nella società, in particolare nella società romana. Il punto è che il corpo di Casamonica è entrato in quella chiesa, il corpo di Welby invece no. Perché?
Casamonica era a capo di numerose attività criminali, Welby era un cittadino che affermava un principio. Il primo è stato giudicato più degno del secondo, dagli amministratori di quella parrocchia, di ricevere un funerale religioso.
È un problema di regole.
Casamonica, con la sua vita, si limitava a violare alcuni principi che riguardano la condotta. Welby invece ne metteva in discussione altri, molto più fondamentali e profondi. Uno su tutti: la vita degli esseri umani non finisce.
Per la Chiesa e per la Mafia è necessario pensare e vivere come se la morte non fosse veramente una fine. Sia il credo cattolico che quello mafioso sono sorretti da un’idea di onnipotenza e di immortalità. Welby, col suo corpo e con le sue parole, ha contestato queste idee e ha indicato un’alternativa: la vita finisce e l’onnipotenza non ha a che fare con la vita; la vita è una faccenda di equilibri delicati che possono anche prendere una brutta piega, e il culto della dismisura è materia per la poesia e per l’arte; i corpi e la loro vita invece sono soggetti a regole, misure e limiti. In una parola Welby ha ricordato pericolosamente che siamo esseri finiti, laddove Casamonica ha vissuto come se il continuo superamento dei limiti e delle regole che tengono insieme la vita fosse non solo una possibilità ma un diritto; per la Chiesa questo superamento dei limiti è addirittura un dovere, è un dovere crederci ed è un dovere affermare che siamo fatti della stessa pasta del divino.
Ecco perché la Chiesa, in generale, ha più paura di Welby che della Mafia.
E la società, cioè noi, che crediamo in fondo alle stesse cose, alla stessa immortalità, allo stesso diritto assoluto di superare certi limiti, alla fine abbozziamo e andiamo avanti, continuando a ritenere normale la mafia e velleitarie le battaglie per certi diritti.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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