Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del teatro francese. Cioè, insomma. Non è che l’Europa borghese lo tema come temeva il comunismo. Ma in materia di palcoscenico un bel po’ di rivoluzione la sta combinando. A esempio questo “Le nostre donne” di Eric Assous. Dopo la prima nazionale dell’Aquila è stato portato con successo in Sardegna da TeatroZeta al Parodi di Porto Torres, a conclusione della bella rassegna “Etnia e teatralità” organizzata dalla Compagnia Teatro Sassari, e al Teatro Civico di Sinnai. E’ la versione italiana di “Nos femmes”, che sta ancora spopolando al Théatre de Paris con protagonista Jean Reno, uno dei volti più noti del cinema francese. E sta già uscendo il film con Daniel Auteil diretto da Richard Berry. Due atti che, anche in questa versione italiana diretta da Livio Galassi, sul piano drammaturgico sono teatro e cinema, battute incalzanti che si arrampicano e si rincorrono in una scenografia (di Lorenzo Cutuli) di un bianco lucente sovrastata, quasi annichilita, da grandi quadri, nudi di donna, gigantesse sensuali e imperative: le nostre donne, appunto. Sempre presenti, quasi palpabili fisicamente eppure invisibili se non nella rappresentazione grafica e scenografica. Vittime e padrone, icone presenti nell’accezione che questo piccolo e rappresentativo universo maschile – Max, Paul e Simon – fa di loro e del loro ruolo: un ruolo, come dire, “assurdo”. E pensate quanto questo aggettivo sia evocativo visto che in fondo parliamo di teatro. Eric Assous è drammaturgo ma anche regista e autore per il cinema, la tv e soprattutto la radio. Chi meglio di lui a rappresentare queste nuove scene europee che tendono con il loro linguaggio multiculturale ad abbattere barriere metodologiche di cui il teatro americano ha già fatto strame ere geologiche fa? Si pensi soltanto a Neil Simon e ai suoi lavori ultradimensionali in cui lo stesso linguaggio scenico e letterario può essere usato sia sul palcoscenico sia sul set: “The odd couple”, a esempio, quella “Strana coppia” che si apre proprio con una partita a carte tra uomini che parlano soprattutto di donne, come questa pièce di Assous. Una citazione? “Molto probabile, non mi stupirebbe” mi risponde l’attore Manuele Morgese, il Simon delle “Nostre donne”, direttore artistico di Teatrozeta dell’Aquila e produttore dell’edizione italiana di questa opera. Max è Edoardo Siravo, anche lui attore del cinema e della tv (il commissario Leoni nell’infinita soap di Canale 5 “Vivere”). Paul è Emanuele Salce, figlio di Luciano, autore e regista, oltre che attore. Insomma, tutti bravi esponenti di questa multimedialità che il teatro francese sta cavalcando con successo. La storia. Max e Paul nel lussuoso loft di Max attendono Simon per la consueta partita a carte. Sono tre agiati e colti professionisti, con i loro gusti raffinati, le loro manie, le loro piccole perversioni. Simon è in ritardo, finalmente arriva ma è fuori di sé, confessa di avere appena strangolato la moglie. Agli amici chiede protezione. Ecco il dramma. Davanti a una richiesta che potrebbe sconvolgere la vita di ciascuno, la verità dei loro rapporti e delle loro regolate esistenze sale a galla per rivelarsi piuttosto meschina. Tutto, nei loro discorsi, ruota intorno alle loro mogli, le vere protagoniste di vite irrisolte, donne gigantesche, come i quadri appesi alle pareti, rispetto alla piccineria dei loro uomini, donne presenti anche se non concretizzate in personaggi da scena, gli unici esseri per i quali valga la pena di essere stregati, di piangere, di sognare, di amare, insomma. Un crescendo buffo e tragico che ha il suo climax nella telefonata della polizia: cercano Simon, la moglie non è morta, era soltanto svenuta. E lo ha denunciato per violenza. Ci dice Morgese che lavori come questo stanno offrendo un importante contributo a superare “la scollatura tra l’attore di teatro e quello di cinema. L’avere importato questo prodotto, l’averci investito sopra, mi rende davvero fiero”. Insomma, dalla Francia arriva questo nuovo modo europeo di fare teatro che alleggerisce anche il teatro italiano, un approccio che abbatte le barriere fra ogni tipo di rappresentazione. E anche un approccio attoriale differente tutt’altro che facile. Chi ha una propensione alla recitazione cinematografica dovrà aggiungere anche una sapienza teatrale. Per parlare soltanto dell’aspetto tecnico, si pensi a esempio ai problemi fisiognomici, le espressioni del volto non possono essere sottilmente accennate, in teatro non c’è il primo piano dell’obiettivo: sconcerto, rabbia, paura e ogni altro sentimento devono essere visibili sino all’ultima fila del loggione con movimenti evidenti della muscolatura del viso che basta un attimo e rischiano di tracimare nella guitteria. E poi il volume della voce, che in teatro deve essere roboante ma apparentemente normale. Al contrario, l’attore di formazione teatrale dovrà abituarsi a battute serrate, a continui cambi di scena e di inquadratura dettati dal testo e dalla regia, pur nella stessa scena e nell’immutata inquadratura del palcoscenico. Insomma, una rivoluzione che sta portando anche nelle nostre sale un teatro moderno e popolare, spietatamente analitico della società e delle sue contraddizioni e insieme umoristico nel suo genere di umorismo che potremmo definire post satirico: dato che della satira tradizionale non ha né la violenza né il senso di terzietà. L’idea è anzi che in ciò che sfottiamo ci siamo dentro sino al collo: attori, autori, registi e pubblico. Pensate un po’, poi, al tratto principale della struttura narrativa. Non c’è il tradizionale plot, non c’è storia sul palcoscenico, se non per pochi e sintetici accadimenti. Tutta la vicenda è già avvenuta e ciò che avviene in scena non è altro che disvelamento di vicende e situazioni pregresse, quando non addirittura l’agnizione della vera identità dei personaggi nei loro reali connotati psicologici o morali. Metodi vecchi rivisitati in questa bellissima e rivoluzionaria modernità made in France. Ci sono due illustri precedenti che fanno pensare all’esistenza di un vero e proprio genere dalla stessa struttura narrativa. Il primo è “Le prenom” di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, l’altro è “Le dieu du carnage”, di Yasmina Reza. Ed entrambi, dopo essere stati applauditi nei teatri di tutta Europa, sono diventati pellicole di grande successo. Il primo in Italia con “Il nome del figlio” di Francesca Archibugi, ma in Francia era già uscito sullo schermo con “Cena tra amici”. L’altro, con il titolo di “Carnage”, è stato portato sul grande schermo da Roman Polanski. In entrambi, l’incontro-scontro provocato da motivi che niente hanno a che fare con l’esplodere delle comiche e drammatiche contraddizioni esistenti. Nel primo il nome da dare a un nascituro, nell’altro la composizione di un litigio tra bambini. Simili vicende fanno vedere i nervi scoperti di ambienti borghesi a volte colti e apparentemente progressisti, altre volte cordialmente e impropriamente aristocratici. “Gente perbene”, in definitiva, le cui pulsioni represse e le nevrosi patenti vengono liberate in spaventose rese dei conti. E alla fine di questi massacri tutto si sgretola: le norme necessarie e ipocrite della convivenza civile, la coppia, la famiglia, il rispetto e persino il pudore. Nel “Dio del massacro” c’è una battuta che potrebbe riassumere queste tre commedie e l’intero genere: “Non si può dominare ciò che ci domina”. E a proposito di quest’ultimo lavoro, c’è una piccola curiosità che fa parte della storia del teatro sardo. Negli scorsi anni la Compagnia Teatro Sassari, sensibilissima alle novità e cogliendo questa nuova tendenza del teatro francese, ne fece una versione in lingua sassarese intitolata “Il dio del massacro. A me figlioru l’ani ifasciaddu la faccia”. Non immaginatevi una versione buffonesca e scollacciata, magari con battute facili e scontate, della raffinata pièce della Reza. Tutto il complesso e travolgente senso del lavoro francese venne reso dalla compagnia di Mario Lubino con la sua straordinaria capacità di viaggiare e sperimentare in ogni contesto etnico-linguistico e gestendo qualsiasi mozione culturale. Ma dovete fidarvi della mia parola. Perché a vederlo siamo stati in pochi. A pochi giorni dalla prima, infatti, arrivò per questioni burocratiche un inaspettato diniego dell’autrice a un riadattamento della sua opera in tutto il territorio nazionale. E così la costernata compagnia sarda fece una prova generale a teatro chiuso, per non violare i diritti d’autore, con pochi amici invitati. Ebbi la fortuna di essere uno di questi e ritenni che quella versione fosse un piccolo capolavoro. La regia era di Marco Spiga e gli interpreti erano Alessandra Spiga e Teresa Soro nelle due parti femminili e Mario Lubino e Alfredo Ruscitto in quelle dei mariti. Credo sia una delle riletture meglio riuscite di Mario Lubino. Trasferire in Sardegna e a Sassari il teatro di Petito o di Pirandello è già di per sé un’impresa. Ma farlo con il raffinatissimo e alle volte deliziosamente cervellotico nouveau théatre de France, credete, è un’impresa di alto professionismo.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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