Quando ho sentito il presidente Conte dire che il suo governo vuole ricreare negli italiani la stessa fiducia nel futuro che avevano l’8 settembre del 1943 me la sono fatta addosso dalla paura. Non è che allora ci fossi, ma conosco abbastanza il recente passato del mio Paese per pensare a quello come a uno dei periodi più disperati della nostra storia. Dice che ha confuso l’8 settembre del 1943 con il 25 aprile del 1945. Boh, non penso, dice pure che Conte è laureato. A me l’8 settembre del ‘43, quello dell’armistizio annunciato da Badoglio alla radio, fa venire il malumore. Mi si forma davanti agli occhi l’immagine stracciona e vigliacca di un’Italia che più invecchio e più amo e che vedo ora in certe pieghe così simile ad allora. E figurati quanto mi è fastidiosa questa insensata antinomia che vivo tra ragione e sentimento. Quando il Fascismo finì di portarci alla rovina, mentre noi ci spellavamo le mani ad applaudire Mussolini, Vittorio Emanuele, dopo averlo messo al comando e appoggiato in ogni modo, lo fece fuori con colpo di stato riuscito fortunosamente. Il re strappò un pasticciato armistizio con inglesi e americani e subito dopo, insieme a quell’altro cuor di leone di Pietro Badoglio (una delle figure più squallide della storia militare di ogni tempo), se ne fuggì abbandonando l’esercito e il popolo in mano ai tedeschi e a fascisti ancora più incattiviti e desiderosi di massacro: senza lasciare ordini chiari, senza neppure ottenere dai nuovi alleati una immediata protezione del suolo della patria. Insomma, altro che abdicazione a favore del figlio ed esilio. Roba da fucilarlo alla schiena, per non fare troppo schifo con la sua faccia a quelli del plotone, se io non fossi contro la pena di morte. Però, in questo quadro disperato, mi viene da pensare ad Alberto Sordi. Già, l’Albertone nazionale, quello che quando Nanni Moretti ha detto “Ve lo meritate, Alberto Sordi”, ho pensato a quanto siamo disperatamente antipatici e perdenti noi di sinistra. Ho pensato a “Tutti a casa”, il capolavoro di Luigi Comencini del 1960. Uno dei film più belli del dopoguerra italiano. Non era più l’epoca piena del neorealismo cinematografico, ma forse questo lavoro ne è stato l’espressione più alta. E infatti la classe politica, anche in quella occasione, se ne mostrò infastidita. “I panni sporchi bisogna lavarli in casa”, aveva già detto Andreotti a proposito dell’”Umberto D.” di De Sica e Zavattini. E anche in questa occasione si mostrò ostile. A esempio, come ministro della Difesa, rifiutandosi di mettere a disposizione alcuni carri armati per la scena finale delle Quattro giornate di Napoli e costringendo Comencini a usare carri armati di legno. Dopo quella della “Grande guerra” di Mario Monicelli, questa viene da molti critici ritenuta tra le più alte interpretazioni di Alberto Sordi, dove ha forse raggiunto vertici non eguagliati neppure nelle grandi occasioni offertegli da Fellini con “Lo sceicco bianco” e “I vitelloni”. Quel film e quella tragica, comica, magnifica maschera italiana rendono alla perfezione quello che siamo e quel pezzo della nostra storia. Sordi è un sottotenente di fanteria di servizio in Veneto nel giorno in cui viene annunciato l’armistizio. Si unisce prima al grido di “la guerra è finita”. Ma poi, quando si trova con i suoi uomini sotto il fuoco dei tedeschi, capisce che la realtà è drammaticamente diversa. Memorabile per l’icastica raffigurazione della criminale confusione in cui il re e Badoglio lasciarono i nostri soldati, la frase dell’ufficiale urlata a un superiore al telefono: “Accade una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani”. Poi comincia l’inevitabile diserzione, il “tutti a casa” in un viaggio picaresco attraverso un’Italia in straziante scompiglio. Il tenente rifiuta di unirsi ai partigiani, guarda senza intervenire una ragazza ebrea presa dai tedeschi. Quando arriva a casa, il padre (Eduardo de Filippo) vorrebbe farlo arruolare per soldi con i fascisti della Rsi. Se ne va di casa e riprende il viaggio sino a quando, catturato dai fascisti, viene consegnato ai tedeschi e messo a lavorare tra le macerie di Napoli. Sono i giorni delle Quattro Giornate. Il suo amico viene ucciso dai nazisti e il tenente sillaba allora la frase più semplice e forte nella sua verità che un uomo possa dire, quella che nella storia di tutti i tempi ha suscitato le rivoluzioni: “Non si può stare sempre a guardare”. Impugna la mitragliatrice e si unisce ai rivoltosi. E’ la nostra storia, di quelli che siamo. Siamo gente capace di perdere la patria ma sappiamo anche ritrovarla. Ora facciamo in fretta, però, a ritrovare la vera Italia, quella civile, ragionevole, produttiva, tollerante e colta. Questo nuovo 8 settembre 1943 cominciato il 4 marzo del 2018 è angoscioso quasi quanto quell’altro.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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