Torno sul caso del giornalista Antonio Cipriani, l’ex direttore della fallita catena di quotidiani Epolis su cui pende un ordine di carcerazione. Nei giorni scorsi Sardegnablogger ha pubblicato un resoconto dei fatti scritto da Cipriani per il portale Globalist, ma è importante analizzare il caso sotto altri punti di vista per sottolinearne le assurdità e per ricordare come, in altri casi, l’arresto di un giornalista abbia determinato imponenti mobilitazioni, anche quando da parte del giornalista vi fossero colpe evidenti. In generale, un’informazione minacciata dalle manette è una limitazione della libertà per tutti: per chi fa informazione, per chi ha il diritto di essere informato.
Antonio Cipriani ha diretto per quattro anni la catena Epolis, nata in Sardegna dall’iniziativa di Nicola Grauso e poi sviluppatasi con diversi quotidiani free press in tutte le principali città italiane. La società è fallita nel 2001 e Cipriani rischia il carcere perché lasciato da solo ad affrontare le decine di cause piovute contro quei quotidiani. Ne era il direttore e ne risponde ancora oggi. Da solo, perché nel frattempo il fallimento ha dissolto ogni cosa di quella galassia di giornali e alcuni degli amministratori sono addirittura finiti in carcere. Importante chiarire un punto: Antonio ha subito le condanne per articoli scritti da altri giornalisti, non per articoli da lui stesso firmati. Certo, era il direttore di quegli organi di stampa: ma è pensabile che un direttore possa controllare, ogni giorno, ogni riga delle decine di quotidiani di cui è responsabile? Sappiate che la diffamazione, in un articolo, non è subito facilmente riconoscibile. Ad una prima lettura si può non coglierla, spesso neppure alla seconda e alla decima, perché la diffamazione non è scienza esatta. Altro aspetto importantissimo: il giudice può decidere la condanna del direttore anche quando, nell’articolo sotto osservazione, la verità sostanziale dei fatti sia stata rispettata. La ormai anacronistica legge sulla stampa dice che l’estensore deve attenersi alla “essenzialità” dell’informazione. Capita quindi che l’autore di un articolo che riporta fatti veritieri possa incappare di una condanna per l’uso di un aggettivo o di un’espressione che il giudice ritiene impropri. Insomma, basta poco per vedersi macchiare la fedina penale. E il giornalista sbaglia, come ogni altro essere umano: per la fretta, perché i ritmi della redazione sono frenetici, per stanchezza e anche per superficialità. I giornalisti sbagliano, come accadde a chi fa parte di ogni altra categoria. Fa parte del rischio, certo. Ed è vero anche che certe parole, come le pietre, non tornano indietro. Ma non si può fare a meno di notare come una certa parte della stampa italiana vada ben oltre quel limite della “essenzialità” imposto dalla legge e, nonostante le infrazioni più volte sanzionate, i suoi alfieri proseguano imperterriti nei loro abusi. Insomma, il caso Boffo e i calzini turchese del giudice Mesiano ce li ricordiamo tutti, per non parlare dell’assedio al giudice della Cassazione Esposito.
Questo pone il problema della parità di trattamento dei giornalisti. Porto, a questo proposito, un esempio che tutti ricordano: la grazia concessa da Giorgio Napolitano ad Alessandro Sallusti, per una condanna subita quando era alla direzione di Libero. Sallusti venne raffigurato come il martire dell’informazione libera cui si imponeva il bavaglio, appelli e petizioni si susseguirono e il Capo dello Stato, strattonato da tutti, alla fine firmò la grazia, risparmiando il carcere al direttore. Non tutti però ricordano che la condanna giunse per l’ostinato rifiuto di pubblicazione di una rettifica, opposto da Sallusti al richiedente. Il richiedente era un giudice di Torino cui molti quotidiani attribuirono per errore l’ordine di far abortire una minorenne. Era una bufala, smascherata qualche ora dopo. Tutti i giornali pubblicarono la rettifica del giudice, Libero no. Per Sallusti arrivò la condanna e l’ordine di carcerazione, stoppato poi dal Presidente della Repubblica. Quella non era colpa, era dolo. E Sallusti ne era direttamente responsabile.
Cipriani paga prevalentemente errori non suoi e dovrebbe, a maggior ragione, godere delle stesse protezioni riconosciute a Sallusti.
Ai giornalisti non bisogna mai smettere di chiedere misura, ma misura è giusto chiedere anche quando si giudica in un tribunale il loro lavoro. Ci sono errori rimediabili con un uso appropriato della rettifica, va distinto l’errore dall’omissione o dalla deliberata mistificazione. La minaccia delle manette e la prospettiva di finire sul lastrico per pagare i danni (spesso compiuti da altri) produrranno una categoria di giornalisti sempre più timida e indisponibile ad andare a fondo, nella ricerca della verità. Finiremo con l’avere giornalisti che decideranno di fermare la loro curiosità quando, sul loro cammino, appaia la soglia del rischio. Per questo il caso Cipriani riguarda tutti noi e il nostro diritto di sapere.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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