Bisogna amarlo il pallone, il rettangolo di calcio, quegli uomini che ci sudano e ci giocano per un qualcosa di apparentemente inutile ma passionevole. Quel gioco si ama quando vedi giocare Pelè, Gigi Riva o Diego Armando Maradona; lo ami anche quando il pibe de oro la fa sporca, la butta apparentemente in politica e segna agli odiati inglesi con la mano e non con la testa. Così che nascono le leggende e così che nasce un concetto, un modo di dire che diventerà universale: “la mano de Dios o la cabeza de Maradona”.Quelle parole le coniò, nel 1986. Luigi Necco, scomparso il 13 marzo del 2018. Chi è vissuto nella generazione di novantesimo minuto sa benissimo di cosa stiamo parlano e di chi erano Luigi Necco, Paolo Valenti, Tonino Carino. Necco, forse insieme a Beppe Viola, Gianni Brera ed oggi Gianni Mura, ha rappresentato un modo di vedere lo sport in maniera diversa: più antro-sociale e più popolare. Un modo di raccontare il futbol (come lo chiamava Brera) come un romanzo. Necco era quello che si collegava da Napoli o Avellino sempre attorniato da tantissimi ragazzini tifosissimi di due squadre che non vincevano mai nulla, ma questo, almeno all’epoca, poco importava.Necco era il mio giornalista preferito. Sapeva raccontare il calcio e sapeva raccontare Maradona. Ma non solo. Era anche uomo d’arte e di cultura. Appassionato di archeologia, attento a quello che accadeva nella sua Napoli, pronto a schierarsi in maniera schietta anche con i potenti, soprattutto contro i potenti di quei tempi: la camorra di Raffaele Cutolo. Durante un suo resoconto della partita giocata dall’Avellino nell’ottobre del 1980 Necco raccontò un episodio che gli costerà carissimo. Il presidente dell’Avellino Antonio Sibilia si reca ad una delle udienze che vede imputato Cutolo. Il presidente durante una pausa saluta il boss con tre baci sulla guancia e gli consegna una medaglia d’oro con tanto di dedica. Necco, con la sua bellissima mimica facciale, con la teatralità dei gesti e accompagnando il tutto da delle parole chiare, stigmatizzerà quel gesto.Il 29 novembre del 1981 il giornalista viene gambizzato da Vincenzo Casillo, luogotenente di Cutolo. Necco continuerà, dopo l’episodio, a raccontare di calcio e ad attendere come una sfida, un gioco, i ragazzini che intorno a lui, quando agita la mano in segno di saluto e di commiato, gli saltino quasi addosso tra urla e schiamazzi vari.Non era importante, a quei tempi, che il Napoli o l’Avellino vincessero, pareggiassero o perdessero. La bellezza stava nel poter raccontare dentro una partita di calcio il mestiere della vita. Amava dire “Milano chiama, Napoli risponde” in un gioco campanilistico fatto di colori tenui, appena abbozzati.E’ stato un grande giornalista sportivo e, credetemi, non ce ne sono molti in giro che sappiano raccontare di sport e di passioni. Ed è stato un hombre vertical davanti alla strafottenza della camorra.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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