Qual è la cosa più strana in questa foto di guerra? La pistola? Il bambino? L’uomo in assetto di guerra dietro di lui? La scritta in alto a destra? I pixel?
Da ieri i media ci raccontano che un bambino di dieci anni è stato usato dall’ISIS come boia per due presunte spie nemiche. Il filmato che gira è spaventoso. Le domande che ci rivolgiamo di fronte a quest’orrore sono confuse. Anni fa mi riferirono una storia, raccontata da un vecchio che conoscevo. Un uomo buono, che oggi non c’è più e che, se ci fosse, avrebbe centoventi anni. Era stato soldato nella prima guerra mondiale. Raccontava che un giorno, lui e alcuni commilitoni, ebbero tra le mani un nemico e si trovarono obbligati ad ucciderlo. Non conosco la situazione né gli ordini specifici ricevuti. Forse fu dopo uno scontro a fuoco. Forse successe che finirono le munizioni o si inceppò il fucile. Non so. Presero il fucile al contrario e uccisero quell’uomo rompendogli la testa col calcio dell’arma. Questo vecchio raccontava sempre di quest’episodio per spiegare che razza di inferno fosse la guerra. Anni fa mi trovavo in treno. Era il 1991. Andavo a Livorno per prendere la nave e tornare in Sardegna. Nello scompartimento c’era un ragazzo della mia età, coi capelli rasati e la voce stanca. Era un paracadutista. Raccontava a un’altra persona che era con lui di un’operazione di guerra cui aveva assistito. Un contingente Italiano aveva preso il controllo di una certa località e aveva fatto sdraiare per terra le persone catturate. Mi pare fossero civili. A un certo punto uno dei catturati aveva iniziato a sbraitare nella sua lingua. Il comandante dell’operazione, un italiano, gli aveva puntato il fucile contro e lo aveva ammazzato come se niente fosse, sparandogli alla testa. Poco tempo dopo raccontai l’episodio a un mio caro amico, un militare di professione che ha partecipato a diverse azioni militari e di peace keeping. Una brava persona che non ha perso nulla della sua umanità nonostante il mestiere difficile. Sentendo il racconto fece una faccia strana e mi rispose: “Mi sembra strano. Però, se fosse vero, quel ragazzo non avrebbe dovuto raccontare la cosa in treno come se niente fosse”. Qualche anno dopo venne fuori lo scandalo degli orrori commessi da alcuni soldati italiani e tedeschi contro la popolazione civile. Ognuno di noi ha sentito di queste storie e ognuno di noi, istintivamente, mette sempre una certa distanza tra sé e queste storie. In realtà sappiamo benissimo cosa sia la guerra. Ma un conto è affacciarsi per un istante sulla bocca dell’inferno, dare un’occhiata e poi tornare fuori, per dedicarsi alla propria vita quotidiana. Altra cosa è vedere l’inferno venire fuori da un televisore all’ora di pranzo e restare impresso nei discorsi, negli occhi e nelle domande dei propri figli, nei succhi gastrici della digestione. The first casualty of war is innocence, la prima vittima della guerra è l’innocenza, dice una scritta all’inizio del film di Oliver Stone, Platoon.
Un tempo la guerra la capiva solo chi la faceva e chi la subiva. Oggi la guerra ci viene a cercare, anche a noi che da settant’anni siamo più o meno in pace. E ci costringe a guardarla negli occhi. Qual è la cosa più strana in questa foto? La pistola? Il bambino? La scritta in alto a destra? I pixel? No, siamo noi mentre la guardiamo e che, dopo averla vista insieme a tutti gli altri alla luce del giorno, non possiamo fingere che sia falsa, e che la guerra non sia quel’inferno in terra che è. A meno di non rifugiarci dietro qualche rassicurante complotto.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Cara Cora (di Francesco Giorgioni)
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