Da qualche parte dev’esserci un pulsante di autodistruzione, dentro la navicella del Partito Democratico. E, giunti a questo punto, credo proprio che qualcuno ci abbia premuto sopra con tutta la forza che aveva in corpo, senz’altro scatenata dalla rabbia delle abituali sconfitte.
Il sindaco di Sassari, Nicola Sanna, ci ha appena ripensato: dopo aver annunciato le dimissioni, ha annunciato di aver ritirato le dimissioni. Perché? Perché “sente l’affetto della città”, questo ha dichiarato a La Nuova Sardegna. Un affetto che dev’essere esploso nelle ultime ore perché dalle cabine elettorali, il 24 febbraio, è arrivata un’indicazione opposta. Dato, questo, nient’affatto irrilevante, visto che il getto della spugna era giunto proprio per il sensazionale flop personale alle regionali. Ma passiamo oltre.
Pare che a chiedergli di rinunciare alle dimissioni sia stato il nuovo segretario Zingaretti, oltre ad una vasta rappresentanza di intellettuali e simpatizzanti sassaresi. In quel poco di storia della Repubblica che la mia anagrafe mi ha permesso di conoscere, non avevo mai visto una tale e trasversale potenza di fuoco indirizzata verso un unico partito. Quel partito è proprio il Pd, primo bersaglio dell’antipolitica militante. Campagne per certa parte strumentali, fondate talora sulle bufale o sull’intolleranza viscerale verso l’aggettivo “democratico”, ma anche sulla reale impopolarità dei leader e sulla stridente contraddizione tra i proclami e loro biografie. Proprio per questo la dirigenza del Piddì, se volesse rilanciare un simbolo su cui sputano tutti, dovrebbe pesare con la massima attenzione parole, gesti e azioni: ogni passo falso diventa, in questi tempi di propaganda con la bava alla bocca, oggetto di violento sputtanamento.
Negli ultimi giorni, peraltro, pare che il Pd stia risalendo nei sondaggi. Secondo me è proprio per l’effetto Zingaretti. Non per i contenuti che porta, ammesso ve ne siano, ma perché il suo nome ricorda inevitabilmente il commissario Montalbano, personaggio molto trasversale. Buonista, amico dei deboli e dei migranti, lettore dei classici, ma anche accentratore, decisionista, amante della buona tavola e dal vaffanculo facile. I tempi sono quelli che sono e la politica ormai è ridotta ad un riverbero televisivo.
Esaurita questa premessa, mi chiedo: a cosa serve cercare di recuperare terreno mandando in avanscoperta la faccia giusta se poi un sindaco annuncia le sue dimissioni e subito dopo se le rimangia? E quale considerazione del popolo può avere un segretario nazionale che sollecita questa precipitosa marcia indietro? E quale rispetto verso i militanti del partito? Io non posso pensare che i responsabili di questa scelta non si rendano conto dell’errore commesso. Un sindaco che si dimette e poi viene indotto a ripensarci rafforza nella gente l’idea di un partito elitario, chiuso in circoli esclusivi, fatto da persone convinte di dover rendere conto solo a loro stesse. Non escludo affatto che sia davvero così. Ma resto convinto che qualcuno abbia deciso di schiacciare il pulsante di autodistruzione. So bene che le dimissioni abortite sono capitate anche a sindaci di altri partiti. Ma in certi partiti i ripensamenti sono permessi, tollerati e quasi invocati. Al Partito democratico invece non è concesso. Ed è giusto così.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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