Io credo che tra i doveri dei politici vada aggiunto per regolamento l’obbligo della fila al pronto soccorso. Dal grado di consigliere regionale in su, almeno una volta per semestre, costoro dovrebbero passare per un’emergenza in un ospedale pubblico, come fa qualunque cittadino non beneficiario di cariche elettive o ruoli istituzionali. Non è una proposta che muove dal gusto sadico è forse un po’ patetico di voler infliggere una sofferenza al potente, ma dalla necessità di formare la classe dirigente: abbiamo il dovere di sensibilizzarla sugli aspetti più importanti, costringendola a rinunciare ai benefici connaturati con la sua condizione per condividere il disagio dell’uomo della strada. Tutta questa premessa per dirvi che ho trascorso un’intera giornata, lunedì, al pronto soccorso dell’ospedale di Tempio Pausania: una familiare stava male, avvertiva dei dolori atroci alla schiena, ma non essendo risultata alcuna anomalia dall’ecografia ha dovuto attendere per un’intera giornata prima di essere visitata da un chirurgo. La stessa sorte è toccata ad una ventina di altre persone che hanno condiviso con noi quell’angusta stanzetta nella stessa giornata. Ed è sempre così, immancabilmente così. Non è l’attesa ad essere sintomo di inciviltà, è l’attesa unita alla sofferenza che non trova ristoro. Il consigliere regionale, il deputato o il senatore che debbano vivere questa esperienza sulla loro pelle, potrebbero forse capire quale sia lo stato della sanità italiana. Esiste, nella gerarchie dei valori di quell’organizzazione detta Stato, un valore più importante della vita e della sua salvaguardia? Io non credo. Ma nei fatti non è così. L’ospedale di Tempio Pausania è uno di quelli che rischiano la chiusura. Nella logica ragionieristica dello Stato che cala la sua mannaia, anche quel Pronto soccorso dovrebbe essere chiuso. E gli utenti graverebbero su altri ospedali, allungando ulteriormente i tempi di attesa. Ho sentito il ministro della Sanità Lorenzin dire che bisogna chiudere i punti nascita con meno di 500 parti all’anno. Dati i numeri bassi, ha spiegato il ministro, il personale medico non ha abbastanza familiarità con le gravidanze e i rischi aumentano. Ma sarà davvero così, se negli evolutissimi Paesi scandinavi le donne hanno ricominciato a partorire e casa? O sarà forse che si guarda solo ai numeri e per i piccoli luoghi – quelli che fanno l’Italia tanto quanto le grandi città – il valore supremo della vita non è riconosciuto fino in fondo?
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo e-book "Cosa conta".
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