Per me, giovane studente venuto dal paese cui le aule universitarie incutevano soggezione, Manlio Brigaglia non era un intellettuale come gli altri. Per un motivo che può sembrare di poco conto, ma non lo era: con lui si finiva sempre col parlare in gallurese, perché un gallurese trova naturale parlare in gallurese con un altro gallurese, oltre l’ufficialità di sedi, contesti e registri. Questo riduceva la distanza tra il ragazzo di paese e l’Istituzione, con la severità dei suoi soffitti alti e irraggiungibili. La lingua comune mi faceva sentire parte della stessa piccola comunità del professore perché, in fondo, entrambi vi appartenevamo. Assottigliava le differenze di ruolo e rango, così come si riduceva l’ampiezza degli argomenti: dai massimi sistemi ai piccoli racconti sulla sua infanzia ad Arzachena, della cui storia Brigalia sapeva essere cultore con la sua memoria mirandolesca e screziata di fini particolari. Altro non saprei dire, perché tutto rischierebbe di essere banale e già scritto, molto meglio di me, da altri. Le parole di congedo che mi ha detto quando sono andato a trovarlo per l’ultima volta, prima di Natale, sono state queste: “Non avere paura di essere duro con tuo figlio”. L’unica cosa che posso aggiungere è questo resoconto della presentazione di un suo libro, scritta ormai otto anni fa.
venerdì 27 agosto 2010 Manlio Brigaglia e il dottor nessuno
Manlio Brigaglia ha appena finito di raccontare la vita di Emilio Lussu e chiede se qualcuno abbia delle domande da porgli. Schizzo in piedi e mi lancio: “Professore, mi affido alla sua immaginazione: cos’avrebbe pensato Lussu nel vedere la bandiera sardista consegnata all’attuale capo del governo, quello stesso capo del governo secondo cui i confinati erano in realtà stati mandati in vacanza dal regime?”. Il professore afferra il microfono che aveva posato per un attimo, sorride e mi fulmina con una delle sue geniali battute: “Sarebbe contento di essere morto”. Scrosciare sincero di applausi dalla platea allestita nella biblioteca di via del porto, a Santa Teresa. Di nuovi sardisti nella sala all’aperto manco uno ne vedo. Di fronte alla forza della cultura meglio tacere.
Vado a salutare il professore, alla fine della presentazione del suo nuovo libro: la raccolta di tutti gli scritti e i discorsi del Senatore. Non c’è bisogno che gli ricordi chi sono, lui mi riconosce subito e si rivolge in gallurese a mio figlio: “Tu sei d’Alzachena?”, lui che di Arzachena è per parte di madre. Brigaglia esibisce un sorriso soddisfatto e un look da studioso in vacanza: polo pallida in tinta col volto, che poco sole deve avere visto, pantaloni chiari e mocassini.
Conosco Brigaglia, ma avrei voluto conoscerlo meglio. Mentre preparavo la domanda, tra me e me avevo pensato anche ad arricchirla osservando che “in tempi bui come questi si deve seguire la luce emanata da intellettuali del suo spessore”. Ma poi ho pensato che al professore non sarebbe piaciuta e l’ho tenuta per me. Non gli sarebbe piaciuta perché l’ho sempre considerato uomo asciutto, insofferente alle formule e ai cerimoniali. Dopo avere superato con lui l’esame di Storia della Sardegna contemporanea. dodici anni fa, lo incontrai nella sua casa sassarese di Corso Umberto. Dovevo esporgli le linee essenziali della mia tesi di laurea, di cui sarebbe stato relatore: ricordo uno studio sommerso di libri e pubblicazioni di ogni genere, che tappezzavano non solo le pareti ma anche il pavimento, di cui si indovinavano le mattonelle tra una copertina e l’altra. Lui stava seduto e mi disse, ridacchiando: “Scegli una sedia e accomodati!”. In realtà di sedia solo una ce n’era…. I percorsi beffardi della vita allungarono di nove anni la mia accidentata strada verso la laurea e, quando venne il momento, lui era già in pensione. Accettò però di farmi da correlatore. Anzi, fece di più: convinse la relatrice ad assumere un incarico che inizialmente aveva rifiutato. Adesso, voi pensate a quel Manlio Brigaglia che io vedo come il massimo intellettuale sardo. E pensate a tanti altri accademici che non valgono un suo mignolo, ma si compiacciono nell’apparire inavvicinabili. Quando completai la stesura del mio lavoro, lui stava a Milano dai parenti della moglie. Gli mandai la bozza per corrispondenza, incorrendo nelle solite disavventure delle poste italiane: il plico vagò per una settimana per l’Italia senza mai arrivare a destinazione, costringendomi ad un’altra spedizione e facendomi correre il rischio di saltare la sessione di laurea autunnale. Ma lui, in un solo giorno, corresse tutto. La sera lo chiamai al telefonino e, io ad Arzachena e lui a Milano, rileggemmo assieme le 134 pagine della tesi. Due ore alla cornetta: da una parte Manlio Brigaglia, dall’altra parte il signor nessuno. Periodo per periodo, virgola per virgola, punto per punto. Fu una lezione elargita senza alcuna spocchia professorale, ma mi fece sentire lo stesso piccolo piccolo. Quando discussi la tesi lui non c’era, costretto in ospedale da un acciacco. Ma inviò una lettera alla commissione che la professoressa Giuseppina Fois lesse e nella quale, fra l’altro, mi qualificava immeritatamente come “buon conoscitore dell’italiano”. Scritta di pugno da Manlio Brigaglia e indirizzata al signor nessuno. Anzi, al dottor nessuno. Credo che Brigaglia sia un caso raro di intellettuale. In lui convergono il rigore dello studioso dalla preparazione sterminata e lo stile, a volte scanzonato, del giornalista dal talento cristallino, quello che sa riconoscere la notizia e si abbassa senza fatica anche a trattare argomenti “volgari”, per così dire. Quello che attacca il pezzo con un “dice che….”. E poi metteteci pure la sua memoria mirandolesca, quella capacità di ricordare tutto che ieri sera gli ha permesso di parlare per un’ora della vita di Lussu corredando il racconto con una ricchezza di fatti ed episodi francamente impressionante, considerando anche gli 81 anni del professore. Episodi sempre stuzzicanti: Joyce Lussu che si porta a letto Emilio la sera stessa che lo ha conosciuto, quella volta che Lussu coprì d’insulti il giovane Brigaglia per averlo qualificato come “fuoriuscito”, lo spassoso infortunio dei missini di Ozieri che intitolarono una via ad una vittima della guerra di Spagna senza avere capito che combatteva con i comunisti e tanto altro. E poi la storia del Partito Sardo d’Azione. “Quel Partito Sardo d’Azione – precisa Lussu, scatenando l’applauso – non quello di oggi, servo di Berlusconi. E qualcuno glielo vada pure a dire a Giacomino Sanna”. Va bene ridere, e tanto più vale la risata quanto più è figlia delle miserie del nostro tempo. Tante cose scritte da Brigaglia ho letto e ogni volta l’ultima mi resta impressa. Ho ancora in testa il coccodrillo confezionato per Cossiga, pubblicato sulla prima della Nuova Sardegna. Un piccolo capolavoro di misura e essenzialità, il ricordo asciutto e senza superlativi della complessa biografia del suo concittadino e quasi coetaneo. Non un giudizio o un’accusa – sarebbero stati indelicati – ma tra le righe si intuiva che non avesse mai nutrito ammirazione per un uomo che aveva fama di predestinato. Ma il capolavoro stava proprio nello spazio minimo tra detto e non detto, quello spazio lasciato all’immaginazione di chi legge. Avrei voluto conoscerlo meglio, ma non ne sono stato capace. D’altronde, cosa c’entrano Manlio Brigaglia e il dottor nessuno?
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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