Ditemela come volete, che hanno paura della Fornero, che c’è un ricambio fisiologico e compagnia cantante. Ma per me questa impennata di prof che vogliono andarsene in pensione si chiama mal di scuola. In Sardegna le richieste sono state 822 contro le 500 dell’anno scorso. Nel Paese la crescita è del 26 per cento. Più 32 nelle superiori. E’ vero che un mucchio di loro hanno paura di perdere il treno e di trovarsi avvitati alla cattedra sino a farsi accompagnare in classe con catetere al seguito. E’ vero che molti che negli anni passati pensavano di essere riusciti a prendere il treno poi li hanno fatti scendere a Chilivani e sono rimasti fottuti. E’ vero che ora per molti giovani in lista d’attesa c’è da sperare. E’ vero che molti insegnanti sardi che ci sono dovuti uscire al corno grande della forca per non perdere il lavoro forse potranno avvicinarsi a casa. E’ tutto vero. Ma che tristezza questa voglia di fuggire. D’altro canto che cosa ha fatto l’Italia – terra senza petrolio, diamanti, gas naturali e altre risorse così – per salvare una delle sue risorse più preziose, una classe docente preparata e autorevole, cosciente del compito di formare coscienze? Alle volte la percezione dei disastri epocali si ha all’improvviso da cose apparentemente marginali. Io a esempio l’ho avuta l’estate scorsa leggendo sulla Nuova un bell’articolo di Antonello Palmas sulla crisi delle libere professioni. Ingegneri, architetti e avvocati che lavorano a guadagnano poco e dicono al cronista: arrivati a questo punto, meglio fare gli insegnanti. Si dava per scontato che l’insegnamento è una professione di ripiego, per guadagno e per prestigio sociale. Capito? Il mestiere più bello del mondo, la professione intellettuale più importante è diventata un ripiego per chi non ha alternative. O per chi non ha pretese. O per chi ritiene di non avere alle spalle una potenza familiare tale da sostenere la scalata a lavori più remunerativi sul piano economico e su quello del prestigio. Fare l’insegnante è percepito come un declassamento, una professione non desiderabile. Comunque non autorevole, addirittura disprezzabile, come dimostra la sempre maggiore e volgare mancanza di rispetto da parte degli alunni e delle loro famiglie. Io, tra famiglia e amicizie, sono circondato da insegnanti e non ne conosco uno che non abbia consapevolezza dell’importanza del suo lavoro, che non abbia alla spalle una solida e faticosa preparazione e che non faccia ogni cosa per tenerla sempre fresca, questa preparazione. Ma penso che ormai quasi nessuno di loro sia davvero contento di quello che fa, pur facendolo con estrema coscienza. Li ho visti fiaccati da anni e anni di lavoro saltuario, di mobilità selvaggia che li costringeva ogni anno a cambiare scuola, senza potere inaugurare una certa continuità didattica se non quasi a fine carriera. Una mobilità dettata da esigenze amministrative e non istituzionali, relative cioè all’istituzione scuola e al suo compito che è quello dell’insegnamento. La precarietà fa risparmiare soldi, crea una classe di professori tappabuchi a basso costo, insegnanti ai quali non è necessario aumentare lo stipendio perché aumenta l’anzianità della carta d’identità ma non quella professionale. Gente chiamata in servizio solo quando serve. Cottimisti da campagna che si radunano in piazza e il caporale li chiama: “Oggi lavori tu e tu e tu e tu. Gli altri a casa”. Che fine per la professione più nobile del mondo. I più fortunati, solo loro, riescono dopo quarant’anni di insegnamento a guadagnare tra i 1800 e i 1900 euro netti al mese. Che non è in assoluto uno stipendio disonorevole. Ma provate a confrontarlo con quello della maggior parte delle altre professioni intellettuali e capirete quale sia la differenza tra questa retribuzione e l’immenso valore della preparazione e del lavoro della stragrande maggioranza degli insegnanti italiani. E la cosa triste è come questa distruttiva ingiustizia non sia percepita dalla coscienza sociale, sempre più annichilita dai luoghi comuni, dalle balle campate in aria e dalla rabbia da social. “Gli insegnanti? Ma se sono sempre in ferie!”. E nelle proposte elettorali di questa classe politica che vuole governarci anche per i prossimi anni, non ho sentito un solo discorso su un rimedio vero a questo male italiano, a questa cattiva scuola che si vuole a tutti i costi andando contro la volontà di chi nella scuola lavora. Una volontà sempre più debole perché la magnifica categoria degli insegnanti italiani viene sempre più indebolita. Da loro non si vuole più insegnamento ma addestramento. Addestrare gli alunni a fare soldi, che imparino a leggere e fare di conto giusto il necessario per il lavoro al quale vengono avviati. In altri momenti, in tutti i secoli, i disastri economici sono stati accompagnati da simili crisi di valori, in un viluppo di cause ed effetti. Ma ora gli insegnanti, la categoria che da sempre ci ha difeso da questa insidia esiziale che è l’ignoranza del passato, rischiano di farsi travolgere dal mondo dove non comandano più il lavoro e la cultura ma la finanza che crea ricchezza per pochi e ignoranza per tutti gli altri.
(Il disegno in alto è tratto dalla prima edizione Rizzoli del 1942 de “Il diario di Gino Cornabò”, di Achille Campanile)
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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