Ziu Antoni mi mostra la vallata ricoperta di fitta macchia mediterranea. “Vede?”, mi fa indicando con la mano quella distesa verde, “Sono centinaia di ettari, tutti di famiglia. Una volta qui c’era lo stazzo con i campi di grano, il vigneto, l’orto, il frutteto, il pascolo. Ora giusto un po’ di legna per il caminetto”. “E i suoi figli?”, domando io incuriosito. “Non ne vogliono sentire della campagna”, mi fa lui intristito. Guardo quella distesa di macchia, che non è bosco e neppure agricoltura, e penso che si potrebbe ricavare una bella azienda, moderna, di quelle biologiche e con l’energia rinnovabile, grazie alla tecnologia di oggi e alla fertilità accumulata nel corso degli anni. Ma come dare torto a quei giovani? Mi capita spesso di parlare con gli anziani del territorio ormai ridotto in stato di abbandono. I figli studiano all’università, oppure hanno già una buona sistemazione; talvolta fanno i camerieri in “Costa”, i lavapiatti a Londra, spesso sono disoccupati, ma della campagna non ne vogliono sentire parlare, con poche eccezioni. In questi ultimi anni, in Sardegna, ci si sta finalmente rendendo conto del dramma provocato dallo spopolamento delle zone interne. La maggior parte dei centri abitati dell’interno, infatti, a partire dagli anni ’70, ha incominciato a invertire il segno demografico, e il saldo è sempre più negativo, al punto che molti paesi ormai si sono dimezzati negli ultimi 30 – 40 anni. Distese di territorio, un tempo dedicate all’agricoltura, oggi sono abbandonate, e ricoperte di macchia mediterranea. Le statistiche oggi rilevano un consistente aumento della superficie boscata in Sardegna. In realtà è un terzo paesaggio, una boscaglia che non è più campo arato ma neppure bosco vero e proprio, anche se statisticamente rilevabile. Sono processi di trasformazione comuni a tutti i paesi industrializzati, che hanno visto ridursi drasticamente il numero degli addetti in agricoltura, fino a rendere il settore primario assolutamente minoritario. In Sardegna gli effetti dell’industrializzazione e dell’abbandono delle terre ha assunto effetti improvvisi e drastici. Sotto un certo punto di vista, in Sardegna il passaggio dal settore primario a quello secondario è stato stravolto dal fallimento quasi totale dell’industria, con un assorbimento di una parte della forza lavora espulsa dal processo produttivo primario localmente nel settore terziario, accompagnata dal fenomeno massiccio dell’emigrazione. L’abbandono delle campagna, in Sardegna come altrove, inoltre, si è manifestato come un processo economico accompagnato da una forte pressione egemonica culturale, tendente a dipingere il mondo tradizionale come superato, antico, inutile, improduttivo. Il risultato di questi processi sociali e demografici, troppo complessi per riassumere se non con un cenno, è l’agonia dell’intero territorio isolano. I paesi dell’interno, con il loro prezioso e unico bagaglio antropologico e tradizionale, sono diventati dei presidi da difendere a tutti i costi, e si moltiplicano le battaglie contro la chiusura di una scuola sempre più ridotta di alunni, di un ufficio pubblico, che sia quello postale o di qualunque altro genere, di un presidio sanitario, di una caserma delle forze dell’ordine, di una linea di trasporto pubblico. Mi sembra tuttavia che l’agricoltura, che è il pilastro sociale ed economico della struttura sociale del territorio, rimanga al margine di queste discussioni. Ho come l’impressione che si pensi ancora, in un certo senso, di trasferire la struttura produttiva della città al paese, con il trasferimento del terziario, che è la sostanza produttiva cittadina, nel territorio. Questa visione da pensiero unico stereotipato mi pare unisca i diversi fronti, centrali e periferici, Regione e comuni, nella lotta contro lo spopolamento, come la recente proposta di potenziare il territorio come luogo di residenza, magari di pensionati, dimostra. Un problema, allora, che non è solo economico, ma anche culturale. E che il problema sia anche culturale, lo dimostra la colonizzazione mentale che agisce sulle nostre scelte alimentari. Mentre si accusa il mondo della drammatica agonia del territorio sardo, in Sardegna si acquista oltre l’80 per cento di prodotti alimentari di importazione. Sia chiaro: non c’è nulla di male a mangiare prodotti di importazione. In tutto il mondo, e in Italia in particolare, ci sono prodotti alimentari di eccellenza. Il mio non vuole essere un richiamo all’autarchia alimentare, non siamo trogloditi, è giusto avere un cultura alimentare aperta e mangiare di tutto. Tuttavia, quella cifra, quell’80 per cento è una esagerazione, e mostra i segni di un distacco con il proprio territorio che non è solo fisico, ma anche mentale. Abbiamo perso il senso del territorio che ci circonda, sostituito da una mente lavata da anni di pressioni pubblicitarie e propagandistiche. Siamo vicino alle feste, e ci stiamo preparando alle abbuffate. Pensiamoci, da sardi, ai prodotti sardi, pensiamoci alle nuove aziende, spesso condotte da giovani, che stanno rischiando e scommettendo, ma davvero, sulla Sardegna, sui suoi saperi tradizionali, e sulla sua terra. Perché comprando i prodotti alimentari sardi, ci stiamo riconciliando con quel territorio che noi, noi e nessun altro, abbiamo abbandonato, non solo all’incolto, ma anche all’incuria, alle discariche e agli incendi. Ci riprendiamo, a cominciare dal supermercato, quella terra abbandonata e di cui, spesso, come una proiezione un po’ colpevole, facciamo sfoggio per poter dire che sono loro, gli altri e sempre gli altri, ad averla trascurata e vituperata.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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