C’è l’ennesimo ragazzo nero che mi porge con un raccapricciante inchino stortignaccolo il suo fondo di bottiglia dove gettare le monetine. Vedo una tale disperazione in questo gesto platealmente servile che mi chiedo quanto lui mi odierà accorgendosi che ora spenderò per un caffè al bar la stessa somma che gli ho dato e che per lui è pane. O forse non gliene frega niente e sono le ombre rosse della mia coscienza che mi fanno pesare questa ormai insopportabile differenza tra ricchezza e miseria. Se confessassi a mia moglie che mi ritengo ricco, penserebbe che faccio spirito di patata o che il freddo mi ha ristretto le condutture del cervello. In realtà come tanti alla fine del mese dobbiamo stare attenti a non andare in rosso. Però sino a ora non mi sono mai mancati sia il necessario sia quel caffè, cioè il piccolo superfluo a pagamento che mi rende felice la vita insieme a un mucchio di altre cose che per fortuna non costano niente. E questo mi basta per iscrivermi abusivamente nella categoria dei “paperoni” (va di moda chiamarli così nelle titolazioni). Come mio stato mentale, come conseguenza di un eterno complesso di colpa rinfocolato dagli spettacoli che a ogni angolo di strada ammoniscono noi felici e lamentosi occidentali su ciò che succede nel resto del mondo. Forse l’unico aspetto davvero positivo della globalizzazione è proprio questo tenere in vigile allarme la nostra coscienza. E le mie ombre rosse mi chiedono se camperemo tanto, io e loro, da vedere almeno l’inizio della fine di questa sporca “crisi” fondata su uno dei più feroci stati di ingiustizia mai visti al mondo negli ultimi secoli. E mi chiedono anche se in questa dittatura della finanza, un mostro infernale che crea soldi senza creare lavoro e che arricchisce pochissimi affamando moltissimi, sia stata la crisi a provocare la povertà globale o sia stato il diffondersi della povertà che ormai pervade anche i paesi ricchi a provocare questo precipitare incontrollabile della crisi. Già una decina di anni fa, ai tempi dei subprime made in Usa, mi chiedevo in tutta la mia ignoranza dove fossero i veri fondamenti della crisi. Abituato a studiare il passato, mi chiedevo dove fossero la carestie, le guerre e gli altri mali che facevano montare questa ondata di insicurezza. Ma vedevo soltanto una economia fatta sempre più da finanza e una finanza sempre più staccata dall’economia. Stavo assistendo a un momento particolarmente visibile, forse quello finale, del passaggio dagli equilibri keynesiani – quelli tra classe dirigente politica e mercato – al liberismo sfrenato. Da una crescita ormai secolare basata su una distribuzione della ricchezza verso il basso al processo opposto. Togliere ai poveri per dare sempre più ai ricchi: lo sceriffo di Nottingham è riuscito a catturare Robin Hood. Era sfuggito, a me e alle mie ombre rosse, a che cosa avrebbero portato le politiche di deregolamentazione avviate con successo e grandi appoggi negli anni Ottanta da Reagan e dalla Tatcher, di come allora si stesse avviando il vorticoso caos economico globale che ha portato a questa incredibile sproporzione tra i redditi da lavoro e quelli enormi da capitale. Un mostro che come Saturno divora i suoi figli perché ormai le diseguaglianze e le ingiustizie sociali sono tali da mettere in discussione anche il sistema di potere che le ha provocate. In questo silenzio della sinistra che storicamente ha sempre rappresentato la difesa dei deboli e il progresso sociale, cosa possiamo fare? Chi libererà Robin Hood prima che lo impicchino? Dovremo attendere che sia la finanza a farlo? Ma non credo che i ricchi gnomi porranno mai un rimedio, se non intercettando e incanalando con certi loro uomini l’ondata di disperato populismo provocata dall’avanzare della miseria. Le elezioni americane ne sono un esempio. Insieme a tanti altri. Ma quelli non sono rimedi. Sono inganni.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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