Preferisco perdere per non perdere. Sembra un gioco di parole ma è in realtà un vero e proprio circolo vizioso in cui si può pericolosamente entrare senza riuscire ad uscirne. In particolare quando il bilancio della nostra vita sembra essere un archivio di insuccessi. E allora via con i consigli del coach, del motivatore col microfono ad archetto (quelli che tagliano la guancia) che vi parla dal palco dopo essersi fatto pagare profumatamente quella giornata di “Crescita personale col metodo Rifinzky”. E non cercate Rifinzky che non esiste, state a perdere tempo.
Lui, il coach per un giorno, vi racconterà una storia, anzi molte di più: c’era una volta un bambino sfigato, incompreso, qualsiasi cosa facesse alla fine c’era sempre il fallimento ad aspettarlo. Così così così per vent’anni, poi di colpo scopre il modo per teletrasportare i corpi umani e da allora #sologioie nel suo cammino. Lo schema del motivatore è sempre questa, Propp non saprebbe far di meglio. Allora voi convinti dalle magiche parole vi mettete in testa che ce la farete e vi mettete anima e corpo e core per il vostro obiettivo più o meno alto e lontano. Ma alla prima sconfitta, tutto quello che avevate costruito o che credevate, si sbriciola sotto ai vostri piedi.
Perché? Perché nessuno ci ha avvisato di quanto sia bruciante la sconfitta. Nessuno ci ha dato il vaccino per immunizzarci dalle ferite che si provano a mettercela tutta e vedersi sorpassare da quello che secondo noi, ha messo un 10% dell’energia che stiamo mettendo. In volata è arrivato lui/lei più bello, più simpatico, con più leadership o con un enorme culone e ci fotte il posto che stavamo guardando da lontano. E a noi non resta che rosicare e #mainagioia per davvero.
Forse perché tra tutti i vari consigli per l’autostima, in pochi si sono soffermati a raccontarci davvero che succede quando perdiamo un set. E a dirci che se anche abbiamo perso, la partita è ancora tutta da giocare. Perché perdere fa male, eccome se fa male. In quei momenti non c’è pensiero positivo che tenga, il buio è ovunque e se ti guardi indietro vedi quella volta che a scuola non ti hanno dato il voto che meritavi perché “in laboratorio hai appena la sufficienza, non posso ammetterti in matematica alla maturità con un sette” e te bruscia. Senza accorgerti che là dietro non ci sei tu. Ci fossi stata tu avresti ribaltato il banco di scuola, quindi quella realtà non ti appartiene, inutile sguazzare nel vittimismo con qualcosa di lontano. Se è vero che saper fallire si impara da piccoli, ti accorgi di alcuni grossolani errori quando ci incappi magari facendo la baby sitter. Ci sono bambini a cui vengono date due possibilità dai genitori: vincere realmente oppure vincere per finta. Insomma perdere non è contemplato. Siccome per vincere realmente ci vuole fatica e non sempre poi si vince per davvero, si preferisce vincere per finta Il vero elogio al fallimento, dovrebbe invece essere concreto, senza illusioni ma senza vittimismi.
Lo sport in questo dovrebbe aiutarci, nella realtà poi le cose vanno anche diversamente. Perché se è vero che allenarsi al fallimento dovrebbe essere affrontato già da piccoli, purtroppo è vero che i genitori stessi sono i primi a voler un figlio sempre vincente, buttandogli addosso aspettative troppo enormi che annientano il lato ludico dello sport. Qualche anno fa ho intervistato istruttori di svariate discipline sportive rivolte ai giovanissimi. Per i piccoli agonisti era previsto un supporto psicologico MA, mi spiegavano, il vero supporto doveva essere rivolto ai genitori. Perché i bambini anziché competere con le proprie capacità e quindi gareggiare per migliorare le proprie performance, diventavano schiavi nel non volere scontentare i genitori che ovviamente usavano i figli come eventuali trofei.
Che sia il risultato di genitori ipercritici o altro, lo lascio dire agli esperti ma l’adulto che sente il peso del fallimento pare sia in realtà una persona che ha paura di vincere.
Già! Avete capito buono.
È la nikefobia da Nike (= Vittoria) che si pronuncia com’è scritto eh. La sindrome dell’eterno secondo, quella che toccava Toto Cutugno a Sanremo.
Pare che inneschiamo involontariamente degli auto-sabotatori tutti nostri. Così come nelle malattie autoimmuni abbiamo degli anticorpi che anziché difenderci ci mettono a tappeto, così anche in questo caso, facciamo tutto da noi.
Non è che si preferisce perdere, semplicemente si ha paura di vincere. Perché? A volte perché abbiamo paura del post-vittoria, dovremmo mantenere quello status da vincente anche dopo. Non accettiamo l’idea che in realtà si possa avere un andamento altalenante Oppure per paura di abbandonare quello stile di vita così comodo comodo che ci siamo creati, preferiamo rimanere “modesti” Si innesca così la cosiddetta Profezia che si Autoavvera ma in realtà, molto più semplicemente, non ce la mettiamo veramente tutta a ottenere quello che vogliamo, siamo convinti di sì ma in realtà tra rimandare o trovare scuse più grandi di noi, stiamo solo dandoci ragione. Beh in questo almeno il successo ce l’abbiamo.
Io ad esempio ora vorrei trovare un finale d’effetto, magari suggerendo la parola magica, ma temo che fallirò. Perché ho avuto mille imprevisti che non mi hanno fatto scrivere il post in tranquillità e mi sono ridotta all’ultimo e… ah già! Pare che il nikefobico dia la colpa di tutto a fatti esterni e se anziché rimandare avessi semplicemente scritto per tempo… ah già! Il nikefobico soffre di un’inguaribile procrastinazionite
Sparo pixel alla rinfusa, del resto sono nata sotto un palindromo (17-1-71), non potevo che essere tutto e il contrario di tutto. Su una cosa però non mi contraddico «Quando mangio, bevo acqua. Quando bevo, bevo vino» (cit. un alpino)
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