Mi fanno incazzare quelli che inveiscono contro la burocrazia per partito preso, perché essendo odiata da tutti è un bersaglio facile facile. Però, quando ci hai a che fare, qualche imprecazione ti sfugge. Dunque, l’altro giorno ho avuto necessità di rivolgermi all’Inps per una pratica presentata nel settembre del 2016 di cui, oltre un anno dopo, non si hanno più notizie. In quel settembre del 2016 avevo presentato una serie di documenti, preparati dallo studio legale che mi assiste, per accedere al Fondo di garanzia della previdenza e recuperare il trattamento di fine rapporto che non ho mai ricevuto, essendo l’azienda per la quale lavoravo fallita senza aver mai versato contributi, certamente per una malaugurata sbadataggine. Nonostante le rassicurazioni fornite dallo studio legale, la cui parcella è stata regolarmente saldata dal sottoscritto, di questi soldi io non ho mai visto un centesimo. Allora, l’altro giorno mi sono armato di coraggio e telefono e ho provato a chiamare la sede dove avevo presentato la pratica. Non so se lo sapete, ma adesso praticamente non c’è modo di parlare fisicamente con gli uffici territoriali della previdenza. No, vi risponde un call center da un luogo a caso dell’Italia o del mondo. Prima, però, dovete interloquire con un risponditore automatico, un automa che vi ordina, con tono perentorio, di spiegargli quale sia la vostra richiesta. Dovete essere chiari e sintetici, altrimenti non vi capisce. Se invece capisce la vostra esigenza, vi passa l’operatore in carne e ossa. Così facendo sono dunque a parlare con un essere umano, una signorina visibilmente inesperta. La quale, non appena io le parlo di Fondo di garanzia, precipita nel panico e balbettando mi chiede di pazientare: mi metterà in comunicazione con una collega più preparata. Parte, nell’attesa, la sigla di Quark. Uno, due, tre minuti di sigla di Quark, quattro, cinque minuti di sigla di Quark, la palpebra inizia a cedere e i riflessi ad appannarsi. Poi, al minuto sette della chiamata, ecco un’altra signorina, accento molto milanese. Questa, però, è sull’incazzato andante. Risponde piccata, con un tono inacidito, eppure sono sicuro di non averle mai fatto alcun torto, anche perché è la prima volta in vita mia che sento la sua voce. Poveracce, io le capisco: non è facile mantenere cordialità e modi affabili dopo ore ed ore a parlare al telefono con sconosciuti che, magari, chiamano per le domande più assurde. “Senta, io sto cercando una traccia della mia pratica per l’accesso al Fondo di garanzia che mi dovrebbe pagare il Tfr….” Ticchettio di tasti, voci in lontananza. “Codice fiscale e nome”. Declino le generalità e aspetto fiducioso. “Guardi che il tfr gliel’hanno pagato a giugno”. “Dove? Quando?” “Qui mi dice Banca nazionale di Sassari, altro non so dirle e non posso sapere”. “Ma la somma a quanto ammonta?” “Mica posso vederlo! Arrivederci”. Ho un attimo di confusione, barcollo come un avversario di Tyson all’angolo. Come, mi hanno pagato il tfr e non me ne sono accorto? Avessi il conto corrente di Briatore la disattenzione sarebbe comprensibile, ma con un conto come il mio ogni bonifico emerge come una particella di sodio nell’Acqua Lete. Vado a rovistare tra entrate e uscite dei miei risparmi e ci trovo, in effetti, un tfr da poche decine di euro, quanto mi era dovuto per un paio di mesi di una supplenza da insegnante. Nulla che c’entri qualcosa col Tfr di sette anni di lavoro. L’operatrice ha preso fischi per fiaschi. Però non mi arrendo e di pomeriggio torno alla carica. Nuova anticamera col risponditore automatico, poi risponde una telefonista che direi romana. Incamerati i miei dati, compreso il protocollo della mia domanda, la signorina mette a correre il cervellone elettronico. Il quale, dopo pochi secondi, emette il verdetto: non c’è traccia della mia pratica, ingoiata nell’oceano di carte e istanze che l’Inps accumula ogni giorno. “Deve andare fisicamente all’ufficio e parlare con la funzionaria che ha ricevuto la sua pratica”, mi consiglia, molto gentilmente, la mia interlocutrice. Quindi, riepilogando, la prima centralinista non sapeva rispondere, la seconda ha fornito una risposta sbagliata, la terza ha concluso che per me non c’era una risposta. Chiedo, genuflesso e con tutta l’umiltà possibile: ma è possibile che in un anno e due mesi nessuno mi abbia fatto sapere qualcosa con una telefonata, una mail, un sms o un piccione viaggiatore per spiegarmi come mai la mia domanda si sia inceppata? Leggo gli orari della sede Inps e vedo che l’indomani gli uffici sono regolarmente aperti, così di primo mattino salgo in macchina e mi faccio trenta chilometri di strada per avere le risposte che cerco. Il totem sputa il biglietto col mio turno. Sono l’utente G8, il che fa prevedere disordini. Si avvicina la guardia giurata che presidia l’ingresso e, molto gentilmente, chiede se ho bisogno di aiuto. Ripeto tutta la pappardella, che ormai ho imparato a memoria, ma lui mi ferma prima del finale. “No, quell’ufficio oggi è chiuso, apre domani oppure lunedì. Però se vuole può prendere un appuntamento online”. Vada per l’appuntamento online. Per poter parlare con una funzionaria, che lavora ad uno sportello ubicato ad un quarto d’ora d’auto da casa mia, devo prima parlare con una signorina di un call center di non so dove, la cui voce giunge alle mie orecchie molto lontana. Tornerò all’Inps mercoledì, la nostra previdenza me lo conferma pure via sms. In questo percorso ad ostacoli, ho dovuto richiedere all’Inps il codice Pin per accedere al mio profilo personale. Nel pomeriggio, il mio telefono squilla: è uno 02, un numero di Milano. Sto quasi per rinunciare a rispondere, pensando ai soliti piazzisti, invece poi apro la comunicazione: è l’Inps. “Senta, dalla sua comunicazione di richiesta del Pin lei dichiara di abitare in via Litarru n.1, ma dai nostri dati il suo indirizzo è via Litarru senza numero civico”. Liquido la telefonista in pochi secondi, spiegando che nella mia via ci sono due case e non fa molta differenza. Ma poi mi chiedo: come cazzo è possibile che ti chiamino da Milano per un numero civico e per un anno non si faccia sentire nessuno per una questione ben più importante? Forse mercoledì ne saprò di più (continua…).
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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