Ogni volta che la sinistra perde le elezioni, mi diverto a leggere i commenti di quelli che “vedi, io lo avevo detto che bisognava fare così e non cosà”. Siccome la sinistra le elezioni le perde spesso, conosco ormai un reggimento di militanti con in tasca la ricetta magica per far risorgere la sinistra, solo che chi comanda è sordo e non ascolta. Bisogna ripartire dai territori, bisogna insistere su ciò che unisce e dimenticare ciò che ci divide, bisogna parlare di noi e non degli altri, non bisogna demonizzare gli avversari e blablabla. A me così facile non sembra.
Dell’unica volta che sono stato candidato a qualcosa, mi ricordo più di tutto il resto un pomeriggio a cercare voti in una casa del paese, una casa zeppa di animali domestici, curati come figli dalla coppia di inquilini che avevo incontrato: per ognuno di questi animali, moglie e marito avevano una storia commovente, di fedeltà ai padroni o sofferenza di strada alla quale erano stati strappati, storie che loro raccontavano trattenendo a stento le lacrime.
Erano impiegati benestanti prossimi alla pensione, di media cultura. Volevano parlarmi dell’inefficienza del servizio sanitario. Ci girarono un po’ attorno, poi capii che il problema principale era uno: in molte guardie mediche e ambulatori “siamo arrivati al punto che si trovano dottori extracomunitari”. Me lo dissero con tutto lo stupore e l’indignazione del mondo, aspettando una reazione altrettanto stupita e indignata. In effetti io stupito e indignato lo ero, per quello che avevo appena sentito. Ma tacqui, perché non trovai nulla di sensato da dire. Non possedevo parole che potessero colmare la distanza tra me e loro, in quel momento e in quel luogo. Avrei dovuto recitare il solito sermone, precisando che io vengo da una formazione per la quale ogni uomo a pari dignità di qualunque altro uomo, che non credo nelle razze, che valuto la persona per quel che è e non per la sua provenienza, che ogni storia umana, ogni ingiustizia e ogni felicità guadagnata onestamente meritano il mio rispetto, ovunque accadano nel mondo.
Ma non avrebbe avuto senso.
Cosa avrei ottenuto, parlando del mio mondo ideale, da gente che ti chiede solo di rimettere in sesto una strada o un lampione della pubblica illuminazione, una raccolta differenziata più efficiente e di trovare un posto stagionale nei parcheggi delle spiagge al figlio disoccupato. Non era aria da massimi sistemi. Cambiai argomento e dopo un po’ me ne andai, biascicando parole di saluto svogliate.
Ho pensato, in quel momento, che è nel chiuso di queste piccole case che si sceglie di diventare Salvini: basta assecondare questa parte di noi, sposare quelle paure, dire che è giusto possederle a non se ne deve avere vergogna. Non è necessario esserne convinti, è importante cogliere l’attimo. Così si diventa un riferimento della tribù. Per chi ha creduto in un mondo diverso e ritiene che l’elettore non sia un cliente cui bisogna sempre dar ragione, trovare le parole oggi è maledettamente difficile. Magari è facile davanti ad una tastiera, più difficile è nei salotti di certe case affollati di animali strappati alla strada. Bestie tanto buone, poverine.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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