Accidenti se me li ricordo Edouard Delessert e il battello di Garibaldi. Era quel maggio strano del 1854, che pioveva un giorno sì e l’altro pure, ma c’era un caldo che ti sentivi come se il mondo fosse tutto in un’ascella. E l’umido era dappertutto, vedevi salire da terra i fumi malefici della febbre, perché ancora non lo sapevamo che la malaria era questione di zanzare e neppure che l’anno dopo non la malaria ci avrebbe ammazzati a migliaia, qui a Sassari, ma il colera. Era quel maggio e io scendevo al Corso, che allora si chiamava via Grande, e vedo questo straniero che sale con il codazzo: un paio di amici suoi, il giudice Manconi e un servo dei Vallombrosa carico di attrezzi che poi ho saputo che erano la macchina del francese per fare le fotografie. Il giudice mi ferma e fa le presentazioni. Io un po’ di francese lo parlavo perché noi borghesi di Sassari dopo un secolo e passa ci stavamo finalmente piemontesizzando e la lingua bisognava conoscerla. Lui l’italiano non lo ignorava e alla fine siamo riusciti a farci quattro chiacchiere. Ora non le ricordo le parole esatte, ma adesso si direbbe che è finita a colpi di vaffanculo, con il giudice che mi guardava costernato, gli amici francesi di Delessert che capivano soltanto che stavamo passando dal fioretto alla sciabola e il servo dei Vallombrosa, carico come un asino di Rosello, che girava la faccia dall’altra parte per non fare vedere che gli scappava la risa. Non è che ci siamo subito presi male. Anzi, lui gentile mi spiega che viene da Parigi. Lì dovevo capire che la cosa si sporcava perché quando ha detto “Parigi” ha fatto un gran sospiro e si è guardato intorno soffermandosi sul Palazzo Civico di Cominotti quasi fresco di calce, che ancora adesso ce lo vantano tutti, facendo il labbruccio come stesse osservando una casa cantoniera dello stradone. Si diletta di fotografia, dice. Gli chiedo cos’è la fotografia e lui si scusa -Mi dimentico sempre che voi sardi siete fuori dal mondo. Comunque me lo dice che cos’è la fotografia che adesso lo sappiamo tutti ma allora era una meraviglia e stupito gli chiedo -E a Sassari che cosa sta riproducendo? Le piace la nostra città? Allora noi ce la stavamo ancora correndo con Cagliari per il primato. Eravamo riusciti a varcare le mura e nascevano quartieri nuovi, circolavano soldi, anche per i poveri (per noi di più, naturalmente), se non eri nobile ma avevi una professione o costruivi case cominciavi a contare quanto un nobile. Anche di più, se il nobile era spiantato. Avevamo aperto dei bei caffè, in cima alla via Grande c’era ancora per poco Santa Caterina, che la stavano buttando giù, ma si vedeva la scalinata che arrivava dove ora c’è la statua di Azuni e a sera ci si sedevano al fresco, insieme, borghesi e zappatori, e a fianco il Palazzo del Governo e dietro vedevi spuntare la torre occidentale del Castello. Insomma, mi aspettavo che dicesse che, sì, la nostra città gli piaceva. Invece fa di nuovo il labbruccio francese e comincia a coprire tutto di merda. A cominciare dalla Fontana di Rosello -Eh, lo so che voi ve la credete molto, ma a onore del vero devo dire… Ma quale “devo dire”! Ma stattene zitto. E invece no, continua. I caffè fanno ridere, gli alberghi sono stamberghe e i gestori sono maleducati, le vie sono strette e disordinate, c’è puzza dappertutto, il Duomo fa schifo, non c’è una costruzione decente. Salvo il palazzo dei Vallombrosa, che ora chiamiamo Palazzo Ducale. Quello era un capolavoro, un edificio come pochi in Italia. Grazie al cazzo: lui era ospite lì e gli davano da dormire e da mangiare gratis e quindi bisognava leccare i padroni. Insomma, alla fine ne usciamo male perché gli dico roba e lui risponde. Il giudice mi prega di fare la persona perbene e io mi calmo e, per riprendere la conversazione come se niente fosse accaduto, gli chiedo -Lei com’è arrivato in Sardegna? -L’altro giorno sono approdato a Porto Torres da Genova, con il “Piemonte”. Lo conoscevo, quel vapore. Una volta l’avevo preso da Porto Torres perché dovevo andare a Torino. Era della compagnia Rubattino, in quegli anni ci assicurava il collegamento con il resto del Regno. -Bella nave, vero? -Ma quale bella! Scomodissima, chiassosa con quell’insopportabile rumore prodotto dalle palette delle ruote; il capitano, poi, un inetto, si vede che è italiano… -Si contenti, questo abbiamo in Italia. E da voi in Francia le ruote dei battelli a vapore girano in silenzio? -Eh, noi abbiamo una marina mercantile e militare che il mondo ci invidia. Comunque quando sono sceso ho fotografato questo vostro porticciolo e nello scatto ci dev’essere anche il Piemonte. Lo vedrò quando sviluppo la foto. La serberò come ricordo di un viaggio per mare molto scomodo. Faccio un segno con la testa e a mo’ di saluto gli dico qualcosa in sassarese, ma con il sorriso sulla bocca, non può capire e neppure i suoi amici; lui ricambia gentile, il giudice scuote la testa preoccupato e il servo ride. Sei anni dopo, a novembre, quando non si parlava d’altro che della spedizione dei Mille e si aveva notizia che Garibaldi era appena tornato a Caprera, ero a Thiesi per certi affari e mi presentano questo Angelo Tarantini, che era uno dei Mille. Uno simpatico, modesto. Ci chiacchiero volentieri e lui a un certo punto mi racconta dell’imbarco di maggio a Quarto -C’erano due battelli di Rubattino sui quali ci siamo divisi. Il generale è salito sul “Piemonte”, Bixio sul “Lombardo”… Sto un po’ a sentirlo poi sussulto perché mi viene in mente quel puzzinoso di Delessert. Al mio ritorno a Sassari vado dai Vallombrosa e gli chiedo se il loro ospite di sei anni prima aveva per caso lasciato un indirizzo. -Eccolo. Gli scrivo una lettera ruffiana e in nome della “nostra vecchia amicizia” domando se quella foto del porto di Porto Torres l’avesse poi stampata e se vi figurasse il battello con il quale aveva fatto quella brutta traversata. Aggiungo che mi farebbe piacere averne una copia per ricordare il nostro incontro. Pochi mesi dopo, quando eravamo da poco italiani e non più sardo piemontesi, tra fanfare e cortei che attraversavano tutta la città io non pensavo più a quella faccenda, quando mi avvisano dalla posta che c’è un pacchetto. In capo al plico, una lettera: “… e aderisco alla sua cortese richiesta inviandole la stampa di quella fotografia. Crede forse che anche io, come immagino lei, non abbia appreso quale valore di simbolo abbia assunto nei mesi appena trascorsi il legno che mi portò nella sua bellissima terra? So che per tale motivo mi chiede la foto, non certamente per rammentare il nostro incontro così sfortunato. Quel giorno il tempo brutto e la poca luce rendevano difficile il mio lavoro. Ero molto nervoso. Me ne scuso adesso con questo piccolo dono. A destra figura l’antica torre del porto, il ‘Piemonte’ è l’imbarcazione all’estrema sinistra; si vedono il lungo fumaiolo e l’albero, ma purtroppo una piccola parte del battello è rimasta fuori dal quadro. Servirà tuttavia a ricordarle il nostro incontro del 1854. E anche a possedere una testimonianza così originale e moderna del passaggio in Sardegna di un pezzo navigante della vostra grande storia di italiani”. Ed eccolo qui sopra, se vi interessa, il “Piemonte” dei Mille di Garibaldi al molo di Porto Torres nel 1854, quando portava passeggeri e merci dalla Liguria alla Sardegna, sei anni giusti prima di portare Garibaldi da Quarto a Marsala.
Edouard Delessert pubblicò nel 1855 a Parigi il racconto del suo viaggio in Sardegna e le foto eseguite con il metodo della calotipia nei volumi “Six semaines dans l’ile de Sardaigne” e “Ile de Sardaigne. Cagliari et Sassari. 40 vues photographiques”. Sono le più antiche testimonianze fotografiche conosciute della Sardegna. (Biblioteca comunale di Sassari). Non si ha notizia che il “Piemonte” sia più tornato in Sardegna. Garibaldi ordinò che venisse conservato in memoria dei Mille. Ma nel 1866, ormai da tempo all’ormeggio nel porto di Napoli, venne demolito.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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