43 morti, 15 feriti, 700 sfollati, una città troncata in due, migliaia di lavoratori a rischio: su questi numeri bisognerebbe fermarsi e da qui far partire ogni discorso. Se ne fossimo capaci. Sono passati sette giorni dal crollo del ponte Morandi ma quei numeri erano già vecchi l’indomani, coperti dal brontolio di un’irresistibile gara di rutti. Nelle prime ore dopo il crollo, quando i morti erano ancora una dozzina, qualcuno eruttava il primo colpo: la Gronda. Tutti sanno che l’opera non sarebbe comunque stata pronta prima di qualche anno e che il Ponte Morandi sarebbe crollato lo stesso, magari più tardi, uccidendo chissà chi. Epperò il rutto sulla Gronda ha messo nell’angolo l’avversario e in molti ne hanno approfittato ruttando qualcosa contro tutto ciò che è no (tav, tap, nuke, jobs, vax, triv, ref, global, ecc). Di Maio, come un’anguilla, è uscito dall’angolo ruttando l’immediata revoca della concessione per le Autostrade ai Benetton e stimolando un controrutto liberista e corale in difesa degli azionisti, dei profitti, del sistema e di come è fatto il mondo. Sempre Di Maio non è stato a guardare, eruttando su Renzi l’accusa di aver preso soldi dai Benetton. E terribile è stata la risposta di migliaia di garganozzi di tutte le fogge, gorgoglianti screenshots sui fondi erogati dai Benetton alla Lega, ma non al PD, per recenti campagne elettorali. È stato allora che Salvini, che le barricate le fa solo per fermare gli Africani, ha ruttato a bocca chiusa, scafato, frenando sulla revoca della concessione a Autostrade. Di Maio però, senza ormai più freni inibitori, ha esploso di gola che chi vuole difendere Benetton dovrà passare sul suo cadavere. Nel frattempo, mentre Facebook era tutto un ruttinare su clausole, penali e allegati secretati, un sedicente padre, in realtà un demente qualunque, divulgava la lettera alla figlia morta sul Ponte Morandi. Purtroppo il vero padre della ragazza era morto qualche anno fa, eppure il demente riusciva lo stesso a far circolare il suo rutto. E come l’ho scoperto? Perché 7 o 8 miei contatti l’hanno condiviso, alcuni perché commossi dalla storia, altri pensando di fargli un dispetto. Intanto ripartivano i rutti in falsetto su chi avesse veramente favorito i Benetton: pare che, a parte forse l’attuale Governo, che non ha fatto in tempo, tutti gli altri, da Prodi in giù, abbiano fatto a gara per rendere la concessione il più agevole possibile per i canuti imprenditori. Se nel giro di poche ore la concessione di Autostrade perdeva smalto, sulla tovaglia di Facebook irrompeva in nostro soccorso la Serie A e fioccavano ruttoni indignati sulla necessità di fare silenzio e sospendere le gare, almeno in una circostanza simile. Il silenzio però è nemico della vita, della libertà e degli algoritmi. Il silenzio, in questo mondo laico e lubrificato è ormai faccenda religiosa, o al massimo privata. Nè si può chiedere silenzio ruttando, perché non si è credibili. Forse, e dico forse, il silenzio potrebbe andare bene al massimo per un Funerale di Stato. Ma anche no. Non sempre i funerali sono funebri, ma credo che pochi siano stati così ruttati e dionisiaci come quelli delle vittime (alcune) del Ponte Morandi. Il primo grugnito ferale l’ha sgutturato Rocco Casalino, avvisando i giornali che la folla aveva applaudito tutti fischiando solo Martina e la Pinotti (ossia il PD). Il rutto si è diffuso a macchia d’olio. I Demnauti, storditi dal gancio, inizialmente hanno rotto le righe disperdendosi per l’arena, chi invocando il pudore (ai funerali si tace), chi i complotti (non sono applausi, è la claque) chi la superiorità di ceto (il popolo è bue perché fischia i buoni e applaude i cattivi). All’osservazione che Mattarella ha ricevuto l’applauso più caloroso, qualcuno ha ruttato che il popolo è bue ma c’era la claque, e comunque ai funerali si tace. Il clangore stava spegnendosi troppo velocemente. Per fortuna esiste la tecnologia, in particolare i cellulari con la telecamera interna, senza i quali non esisterebbero i selfies. E da sabato non si parla più neanche per sbaglio dei feriti, degli sfollati, delle storie di chi è stato estratto dalle macerie senza vita, e di chi è stato identificato per ultimo e chissà come. È da sabato che si truogola quasi solo del selfie di Salvini. Come da schema consolidato, le home si sono subito riempite di controesempi (selfies funebri di Obama, di Renzi, foto dei funerali di Borsellino e di Berlinguer) con slittamenti sul colore del vestito di Salvini, e su Salvini che carezza una donna africana, e sui funerali privati che sono meglio di quelli pubblici, eccetera. Alle 22.12 di Domenica 19 agosto, la polemica sembrava avviata su un binario morto. Sembrava che il paese virtuale avesse terminato la sua digestione. Anche gli scricchiolii di ciò che resta del Morandi, e le prime case agli sfollati, e i cavalcavia in giro per l’Italia che qualcuno inizia a guardare con sospetto, sembra non abbiano gas sufficiente a rinvigorire la battaglia. Possiamo solo aspettare, dunque, e accumulare aria nella pancia sperando che il domani ci offra qualche tema su cui guerreggiare indignati. Mi resta però una sensazione, alla fine di questi 7 giorni. La sensazione che la sinistra sia destinata a perdere ancora a lungo. Mi sono chiesto, tra un rutto e l’altro, e magari ingenuamente, come sia possibile, a parte la dabbenaggine di Di Maio, tifare anche solo per un millisecondo per i titolari di una concessione (vantaggiosissima per loro e capestro per noi) che comporta pedaggi salati, stradedimmerda e, di fatto, 43 morti. Eppure questo abbiamo fatto, per rispondere ai rutti altrui: tifo. Mi chiedo, e non da sette giorni, come sia possibile insistere a prendere gli elettori per ignoranti, a invocare il TSO per i vaccini, a tifare pero la cacciata dei bambini dall’asilo coi Carabinieri (ibambinicacciatidascuolacoicarabinieri, cristodiddio) a ipotizzare, anche solo per scherzo, l’esame di cultura generale per mantenere il diritto di voto, a fare il tifo per riforme sanitarie che concentrano i servizi nei grandi centri e penalizzano, per non dire che derubano, i piccoli paesi e le comunità più isolate. Come si fa? E mi chiedo come ci venga in mente di farci trascinare dagli avversari in una gara di rutti -sapendo che siamo destinati a perderla- pur di non metterci mai in discussione e continuare a pensare che siamo il Partito della Scienza, il Partito della Ragione. L’esercizio della ragione, specialmente della nostra, è diventato uno sport muscolare. La pazienza della politica invece, va a farsi benedire, in omaggio a un mondo sempre più veloce, di una velocità intransigente, in cui la complessità non ha spazio né per chi non ha gli strumenti per coglierla, né per chi li ha ma è troppo impegnato a giustificare lo stato dell’arte e, in fondo, la propria sicurezza piccola e borghese. Ho l’impressione che alcune cose di sinistra che potremmo ancora fare, come non correre in soccorso del vincitore, non precipitarsi a sorreggere chi cade sempre in piedi, non fare obbligatoriamente il tifo per il sistema, provare simpatia per chi sta indietro, provare complicità istintiva verso chi dice no a qualcosa, ormai non si facciano più perché in fondo stanno sul cazzo un po’ a tutti. A sinistra, intendo. Rischiamo, oggi, che i prossimi governanti ci facciano rimpiangere Salvini. D’altra parte è quello che molti, a sinistra, dicono già ora di Berlusconi (o mi sbaglio?), e sembrava impossibile, ed è quello che dicevamo anni fa di Craxi e Andreotti, e sembrava impossibile anche quello. È in corso una deriva liberista, forse dall’89, forse dagli Anni 70, forse da sempre, non so. Sicuramente, dall’89 abbiamo commesso almeno un errore logico: abbiamo pensato che siccome era morto il comunismo (che era morto senza ombra di dubbio), era come se fosse morta anche la controparte. In realtà il liberismo non era morto manco un po’, lo sapevamo tutti ma abbiamo fatto finta di nulla. E ci siamo imbarcati nella sua deriva. E il PD residuo, tutto, quella deriva la sta assecondando in tutti i modi, come hanno fatti i DS e il PDS prima, e ora non vuole provare a capire che e cosa ha sbagliato, perché ha perso il 4 dicembre e poi il 4 marzo, e perché perderà ancora. E più non capisce e più viene fischiato, e più viene fischiato e più rutta, e più rutta e più muore.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Elio e le storie disattese (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
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Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
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Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
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