Gino Girolimoni, l’uomo accusato sbrigativamente da una polizia fascista che aveva bisogno di un colpevole. L’uomo a cui la stampa dedicò ampio spazio durante l’arresto ma un solo trafiletto quando fu rilasciato per insufficienza di prove. Forse anche per questo poco risalto, l’opinione pubblica non assimilò la piena innocenza di Girolimoni che nel 1961 morì in miseria. Tra i pochi presenti al suo funerale, un uomo, un poliziotto: Giuseppe Dosi.
Era il 1924 quando una bambina, la prima vittima del “Mostro di Roma”, fu attirata da un signore gentile che prometteva caramelle. Nel giro di due anni, una serialità nell’adescamento di bambine poi violentate e uccise e una ritualità: le bimbe venivano adagiate su fogli di giornale e strozzate con dei fazzoletti (in alcuni spiccava lettera “C” ricamata) oppure con delle salviette di pregiata fattura. Roma era in piena psicosi da mostro e il fascismo doveva dare delle risposte vista l’importanza data alla sicurezza durante la martellante propaganda. Nel febbraio del 1926 si arriva a istituire una taglia di 50 mila Lire.
Ecco che Gino Girolimoni, fotografo per passione e Agente in Materia Antinfortunistica di professione, capita a fagiolo. Del resto è uno con “due occhi stranissimi, dal taglio quasi mongolico” e poi “quando parla strizza l’occhio sinistro”. Per la polizia non ci sono dubbi visto che il colpevole si era sempre cercato nei bassifondi e possibilmente con qualche difetto fisico. In più costui era un appassionato di automobili e già si era detto che il Mostro di Roma sicuramente possedeva l’automobile, che all’epoca era per pochi. Veniva dedotto questo perché durante gli interrogatori ai conducenti di mezzi pubblici, nessuno aveva mai visto il mostro, eppure si era spinto fino a Roma Lido, come poteva arrivare fin lì? Con l’auto, chiaro! Come caddero i sospetti proprio su di lui? Gino Girolimoni era oltre che appassionato di auto, anche un inguaribile latin lover. Molto probabilmente notò la moglie dell’ingegner Dante Pacciarini, Cecilia. Per giungere a lei si servì della domestica Olga, una tredicenne che dimostrava molti meno anni, la quale fraintese l’approccio pensando che invece fosse rivolto a lei. Riferì al suo padrone di quell’uomo che voleva consegnarle un bigliettino e l’ingegnere denunciò subito alla polizia. Scattò la trappola e Olga avrebbe dovuto avvicinarsi per prendere il biglietto da quell’insistente “corteggiatore” mentre la polizia stava in agguato e ben nascosta. Olga però si rifiutò all’ultimo e il biglietto non si seppe mai a chi fosse indirizzato. Ma ormai tutto portava a lui e non poteva che essere lui il Mostro di Roma.
L’arresto e la filosofia dello “Sbatti il mostro in prima pagina” hanno fatto il resto per marchiare a vita un uomo che aveva le uniche colpe di essere un appassionato di donne e auto e di avere qualche strano tic. Un poliziotto però, qualche tempo dopo, ricostruì e studiò i vari delitti, incrociando diversi dati che lo portarono a quello che per lui era il vero mostro. Giuseppe Dosi prima di diventare delegato di polizia, fu un promettente attore di teatro. Questa dote gli permise di investigare utilizzando spesso travestimenti talmente ben riusciti che arrivò persino a rendersi credibilissimo come donna. Sempre grazie ai suoi travestimenti, riuscì a ingannare D’Annunzio per indagare su un attentato, forse di natura politica, nei confronti del Vate. Il maggiore indiziato: Benito Mussolini che in quell’epoca si contendeva con il poeta la leadership del Movimento Fascista. Dosi entrò in amicizia con D’Annunzio, frequentando la casa e scoprendo poi che in realtà a farlo cascare giù dal balcone, non era stato un attentatore politico bensì una delle sue amanti.
Con la stessa tenacia e arguzia, seguì il caso Girolimoni dopo che un reverendo anglicano fu fermato a Capri per aver molestato una bambina. Da quel momento tutti i sospetti da parte di Dosi si concentrarono su Ralph Lyonel Brydges. Scoprì che una volta arrivato a Roma nel 1922 con la moglie Florence Caroline Jarvis divenne cappellano della chiesa anglicana non lontana dalla zona dove operava il mostro. Dal suo passato viene fuori che in USA molestò alcune bambine e per questo fu spedito in Europa, almeno questo secondo testimonianze raccolte da Dosi. I giornali su cui venivano posate le piccole vittime erano pagine di un catalogo religioso inglese che all’epoca ricevevano solo quattro persone in tutta Roma. Brydges era uno di questi. Inoltre quei fazzoletti di fattura inglese con la C ricamata come l’iniziale di Caroline, vengono ritrovati anche in casa del prelato. Dopo queste indagini, Giuseppe Dosi ordina l’arresto di Brydges che si appresta a lasciare l’Europa per recarsi in Sud Africa. Ma le pressioni dall’alto sono tante, la comunità anglicana a Roma è folta e conta abbastanza. Se ne ottiene un’accusa sì di molestia ma in un momento di “incapacità di intendere e di volere” e per questo verrà condotto nel manicomio di Santa Maria della Pietà. Una volta calmate le acque però, Brydges potrà lasciare l’Italia. Per Dosi comincerà una vera persecuzione. Aveva riaperto una ferita con le sue scrupolose indagini che andavano a svelare le contraddizioni della polizia stessa e al commissario Bocchini quest’onta non andò giù.
Fino a che non morì, Arturo Bocchini cercò di allontanare sempre più il poliziotto Dosi. Confinandolo in luoghi periferici e con ruoli sempre più marginali fino ad arrestarlo nel 1939 perché ritenuto socialmente pericoloso. A Regina Coeli, Dosi rimase nel braccio ove si trovavano i detenuti politici. Da qui fu poi trasferito al manicomio di Santa Maria della Pietà nel padiglione 18, lo stesso che ospitò il reverendo Brydges, con una diagnosi di “sindrome paranoidea con idee persecutorie”. La diagnosi fu fatta da Filippo Saporito, lo stesso psichiatra che confermò la pazzia di Leonarda Cianciulli, così come lei voleva si pensasse. Il riscatto per Dosi non tardò ad arrivare. Una volta morto Bocchini, nel 1940, fu liberato e a fine guerra poté riprendere a lavorare con una carriera memorabile nella Polizia e nell’Interpol. Per lui il lieto fine c’è stato. Che fosse realmente colpevole, il reverendo Brydges, non lo sappiamo. Ma Dosi con le sue tecniche e la sua investigazione di taglio moderno, ebbe il merito, ma per sua sfortuna, di aver svelato le lacune di una polizia ormai troppo politicizzata. È grazie a lui se si evidenziò quell’innocenza fino ad allora sussurrata. L’innocenza di Gino Girolimoni un uomo per il quale il lieto fine non è mai arrivato.
Sparo pixel alla rinfusa, del resto sono nata sotto un palindromo (17-1-71), non potevo che essere tutto e il contrario di tutto. Su una cosa però non mi contraddico «Quando mangio, bevo acqua. Quando bevo, bevo vino» (cit. un alpino)
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