Chissà perché ma il discorso di Trump mi è parso come una raccolta di parole chiave gettate in pasto a tutti. Parole che possono essere belle o terribili. Quello che colpisce è l’incipit. Quel saluto frettoloso ai magnifici Obama per poi metterli subito da parte. Adesso comando io. Sarà una mia sensazione ma il discorso di Trump lo reputo molto pericoloso e vicino a persone che non mi piacciono per niente: Salvini è chiaramente uno di questi. Trump ha detto a chiare lettere che prima dovranno esserci gli americani e che si dovrà acquistare “americano”. Ora, sarà che io capisco poco di economia ma mi pare di ricordare che, per esempio, tutti i prodotti Apple – e quindi americani – sono assemblati in Cina però, come dire, io non sono bravo a far di conto e rimango dentro le parole. Ha poi utilizzato le parole difesa e vittoria. Difesa dei propri confini e vittoria egoistica, solitaria, solo ed esclusivamente americana. Anche qui scricchiola il mio credo che è sempre stato plurale e a colori. Il mondo di Donald Trump è piccolo, egoista e in bianco e nero. Poca propensione per la creatività, per il sogno americano, per la voglia di esserci e per la partecipazione. Gli americani si chiudono nel loro recinto a produrre solo per loro. Sono parole ma hanno il loro peso. Non possiamo permetterci di pensare che a dirle è un comico o un ricco prestato alla politica. Errori molto italiani. Gli americani, con il loro pragmatismo, sono abituati a prendersi sempre sul serio e per noi europei non è una bellissima notizia.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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