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Quando l’anno era iniziato da pochi giorni, sono andato al mare. Al mare che sento più mio, quello di Cannigione e Laconia. Da Arzachena sono otto chilometri e lì ho fatto i primi bagni in acqua salata della mia vita.
A Laconia, alla spiaggia del molo dove andavamo da ragazzi per fare i tuffi, ho trovato per la prima volta la strada asfaltata. Non sapevo se esserne contento o no, perché la nostalgia innesca sentimenti egoistici. Ad essere pratici molto meglio l’asfalto, invece di quello sterrato che per una vita è stato avvallamenti e buche colme d’acqua piovana nella brutta stagione. Però, se per una vita sei stato abituato a vedere le cose in un certo modo, anche una terra arida, se improvvisamente coperta di catrame, ti mette tristezza.
L’asfalto però finiva in una piccola rotatoria oltre la quale, in auto, non si poteva andare. Sulla destra la spiaggia del molo, quella dei tuffi, in fondo, ad una cinquantina di metri, la spiaggia grande. Tre anni fa, al nascere del sole di una giornata d’agosto, sugli scogli della spiaggia grande ci trovai per caso babbo e mamma. Io ci ero arrivato con un amico in mountain bike, babbo e mamma in macchina. Mamma già si muoveva aiutandosi con le stampelle e quella spiaggia le consentiva la soddisfazione di poter bagnare i piedi nel mare, perché la strada sterrata finisce in un grande spiazzo proprio al limite dell’arenile. Oggi i piedi a mollo, alla spiaggia di Laconia, mamma non potrà più metterli, perché dalla nuova rotatoria al mare passano alcune decine di metri, peraltro su un terreno disastrato sul quale difficilmente vorrà avventurarsi.
Qualche giorno fa mi è capitato di vedere delle immagini aeree girate in quel tratto di costa di cui vi sto parlando. E ho capito il perché di quella rotatoria e dello stravolgimento del paesaggio. Oltre la strada, nascosto da un cocuzzolo, è nato un nuovo complesso immobiliare composto da villette con piscina, tutte circondate da strade interne alla proprietà. Le villette arrivano quasi al limite della spiaggia grande ma, come dicevo, la particolare conformazione del paesaggio non permette a chi transiti sulla strada di vederle. Sapevo dei lavori in corso, ma non immaginavo di questa vastità.
Ho postato il video su Facebook, con un commento neutro: semplicemente, ero sorpreso dalla nascita di un borgo così esteso senza che nessuno se ne fosse accorto e nessuno ne avesse mai parlato. Ho iniziato a riflettere sul lento dissolversi della nostra coscienza ambientalista, ma anche sulla coscienza di una comunità che forse qualche domanda in più avrebbe il dovere di porsela. Ho ricordato che trent’anni fa, per il caso di Cala del Faro, le domande qualcuno le pose, Antonio Cederna in primis, scatenando un dibattito di risonanza nazionale. Ho ricordato quella volta in cui le telecamere de Il Rosso e il nero di Michele Santoro sbarcarono a Liscia Ruja, quando ancora si ipotizzava il Master Plan della Costa Smeralda con i suoi cinque milioni di metri cubi di cemento.
Oggi nulla. Non se ne occupa la stampa, non ce ne occupiamo noi, residenti che più di ogni altro avremmo il dovere di chiederci cosa sia bene e cosa male per i nostri luoghi.
Io non sono pregiudizialmente contrario a questi interventi, non ho le competenze per dire che siano un bene o un male. Però sono pregiudizialmente contrario all’idea che possano essere realizzati senza un dibattito preliminare all’interno della comunità che li ospita, come avvenuto in questo caso.
So bene che si rischia di essere bullizzati se si tenta di parlare di sostenibilità ambientale in una comunità costiera come la mia, cresciuta col turismo e col cemento e dove le più divergenti posizioni politiche trovano sempre il compromesso nel metro cubo.
Ma preferisco le pernacchie al silenzio.
Nella mia concezione di democrazia, modificare il territorio in una sua così pregiata parte non è mai solo un fatto ristretto alla sfera privata dei promotori. No, io credo sia una questione di interesse pubblico sulla quale sia necessario un confronto aperto.
Naturalmente sulla mia bacheca Facebook è nato il dibattito. Mi è stato spiegato dagli addetti ai lavori che questa lottizzazione è stata approvata circa trent’anni fa e, trattandosi di un diritto acquisito, ogni discussione sarebbe stata inutile. Mi sono chiesto: ma tutto quel che abbiamo imparato in trent’anni in termini di sostenibilità decade, di fronte al diritto acquisito e agli inviolabili diritti alla proprietà e alla libera impresa?
Evidentemente sì. Tra chi è intervenuto, ha espresso posizione favorevole all’intervento chi in quei lavori è direttamente coinvolto. E io credo che chi lavora abbia tutto il sacrosanto diritto di difendere il pane che si è onestamente guadagnato. Capisco anche una certa prevenzione per quell’ambientalismo integralista che vorrebbe imbalsamare il mondo e considera inviolabile ogni cespuglio di cisto.
Però questo non può negarci il diritto e il dovere di farci delle altrettanto sacrosante domande.
Prima di tutto: quel nuovo intervento urbanistico migliora o peggiora l’aspetto e la sostanza della nostra comunità, gli appalti e le buste paga (di cui ignoro l’entità) valgono il sacrificio?
La politica ritiene di doversi porre questo problema?
E noi, gente comune, sentiamo il bisogno di porcele ancora?
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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