Sarà un metro e sessantacinque: bassottino e tarchiato, viso tondo, occhi furbi e sorriso, zucca quasi tutta in vista con due bassorilievi pelosi sui lati, ogni mattina una passata di regolacapelli, barba, dignitosissima lozione Auchan e poi alle 7 solleva la saracinesca del bar. Si è giocato la vita, il ragazzo e la sua famiglia, con quel bancone su cui serve caffè (ottimo, non so come faccia con la macchina dell’anno 3 dopo Cristo che sembra la vaporiera sui binari di Anna Karenina), liquori, vino buono e panini da non disprezzare. Ha messo su un piatto un affitto notevole e sull’altro i guadagni di una clientela che va lì perché in quei dieci minuti di giornale e cappuccino o in quella mezz’ora di panino e birretta vuole sentirsi a casa. Una volta mi ha detto qual è la differenza tra i due piatti, cioè quello con cui campa in cambio di una quindicina di ore di lavoro al giorno. Io, pur non essendo ricco e non essendolo mai stato, avrei mandato affanculo chiunque mi avesse proposto di lavorare anche la metà di quel tempo per quella cifra. E avrei detto no anche se mi avessero offerto un lavoro più leggero di quello di stare quindici ore in piedi a fronteggiare clienti chiacchieroni quando non hai voglia di chiacchierare e clienti ubriachi (in un bar può succedere) ai quali non ti puoi permettere di dire “Fuori! Sennò ti sbatto fuori io a calci” e li devi fare accomodare gentilmente sul marciapiedi prendendoti insulti e aliti fetenti e magari consigliare cortese “Per oggi torni a casa a piedi, non le conviene mettersi a guidare”. Ma io non sono un eroe di tutti i giorni come il barista sotto casa mia. Già, parlo proprio di lui e non faccio il nome perché questo po’ di pubblicità magari gli farebbe piacere ma forse non vorrebbe sentir parlare di lui su un piano così personale. E’ un eroe perché quando ha impegnato la sua vita per acquisire la gestione di quel bar così interessante in una via centrale e davanti a un supermercato di quelli belli grandi e frequentati, nel locale si è trovato anche un fila di slot machine. Sapete, quelle macchinette che alle volte ci vedi persone strane davanti. Magari un ragazzo che arriva lì stringendo in una mano il guadagno di una giornata di lavoro nero in un cantiere edile semiabusivo, o una signora anziana che ha ancora sulle maniche la polverina tirata via da un cartata di dieci gratta e vinci e ora ha l’altra mezza pensione da bruciare, o un uomo dal viso torvo e pensoso. Hanno sguardi allucinati, si muovono con gesti meccanici, sembrano i mimi che fanno i robot, certi pagano in anticipo il conto della consumazione perché non si sa se alla fine gli restano soldi. Una volta, in un altro bar zeppo di slot, mentre mi dirigevo al bancone, una delle macchinette si è liberata, un tale è scattato da un tavolino e mi ha quasi scaraventato in terra per occuparla prima di altri. Ho detto qualcosa, ho fatto per reagire e il barista è balzato fuori dal bancone. Si è frapposto -Lasci stare, lo conosco. Lo può prendere a bottigliate e non se ne accorge. E allora ho osservato il cafone. Lo vedevo di profilo, non si era reso conto di niente: dello spintone, della mia reazione, dell’intervento del barista. Gli vedevo solo un occhio vitreo e disperato puntato sui quei numeri e quelle lucine; e quei dindidin sembravano la colonna sonora di un film dell’orrore. Il mio amico del bar sotto casa, quindi, quando ha rilevato il locale si è trovato le macchinette e un contratto a nome del precedente gestore che sarebbe scaduto dopo qualche mese. Ed erano soldi, anche per lui. Con margini così bassi di guadagno e con un’attività da fare decollare, quelle centinaia di euro al mese erano preziose. Però il mio amico ha deciso che così come non avrebbe mai scelto di fare lo spacciatore di droga, il protettore di puttane o l’esattore per conto di strozzini, nello stesso modo non voleva guadagnare soldi dalle slot. Vuoi dire che è la stessa cosa? Dio me ne scampi, no di certo! Sennò la sintesi di questa mia storia sarebbe che gestire una slot è come alimentare le tossicodipendenze o sfruttare il corpo di tante donne disgraziate. E mi denuncerebbero perché così insulto tutti i baristi che fanno una scelta diversa. Non è colpa loro, certo, se fanno ciò che la legge li autorizza a fare. Anzi, non ce l’ho con nessuno di quelli che lavorano ai livelli di base in questo mondo di casinò per i poveri. So di ragazzi e uomini fatti che campano facendo ogni giorno il giro dei bar con slot e delle sale da gioco per svuotare le macchinette e versare i soldi in cassa. Conosco uno che le aggiusta quando si guastano. So di gente senza lavoro che si costituisce in cooperativa per aprirne un’altra, di sala da gioco. E giustamente si tengono stretto il loro lavoro. Dicono che non sono più “immorali” di qualsiasi venditore di liquori o di tabacchi. E quando monta l’indignazione si sentono perseguitati, scrivono sui social parlando di posti di lavoro, dicono che questa storia delle ludopatie è una sciocchezza e che basta giocare con moderazione. E’ vero: basta giocare poco, bere poco, fumare poco… Hanno ragione. Non ce l’ho con loro. Ce l’ho con gente che sta infinitamente più in alto di loro. Ce l’ho con tutti i traffici di soldi e di potere che tengono in piedi questa cazzo di legge che a ogni angolo di strada ci mostra disperati inchiodati a una falsa speranza fatta di dindin e lucine colorate. Ma cosa volete, ognuno è libero di scegliere di fare o non fare ciò che gli è permesso. E il mio amico barista mi ha detto proprio così: siccome io non spaccio e non sfrutto puttane, nello stesso modo non voglio le slot nel mio locale. E’ fatto così. Ognuno si sceglie i suoi parametri di moralità. D’altro canto anche Marx parlava di sfruttamento e nessun riccone, pur risentito, si è mai sognato di querelarlo per diffamazione. E così il mio amico, quando è scaduto il contratto del precedente gestore, ha fatto rimuovere le macchinette e guadagna qualche centinaio di euro in meno al mese, ma la moglie lo ha abbracciato e all’ora di pranzo va a mangiare al bar e si contempla fiera e innamorata il suo pelatino che serve gli altri clienti. E non sa neanche, bisogna che glielo dica, che avrebbe potuto vedere premiata la sua scelta con qualche euro di tasse comunali in meno. Ora pare che nella mia città di Sassari stiano per aprire una nuova e grande sala da gioco. Pare che abbia anche ambizioni di un certo lusso. Per questo tipo di servizio siamo già ai primi posti a livello nazionale, forse proprio al primo. Ma evidentemente c’è una domanda a cui risponde un’adeguata offerta. Qualcuno ha protestato e la consigliera comunale Lalla Careddu, che tra l’altro fa parte di un movimento contro il gioco d’azzardo, riferisce di essersi beccata la telefonata di un suo collega: la voleva “denunciare” e toglierle “i soldi che non hai”. Cioè, in sostanza, le avrebbe dato dell’indigente, per dirla educatamente (anche se non so quanto c’entri l’educazione in questa faccenda). Qualche giorno prima la consigliera aveva commentato la notizia dell’ennesima sala da gioco dicendo: “Sicuramente è tutto legale. Ma non tutto quello che è legale è eticamente accettabile”. Non aveva fatto alcun nome di personaggi più o meno politici coinvolti in questa operazione, e non so se ve ne siano, ma chissà perché ha ricevuto questa strana telefonata. Comunque, il Comune non può opporsi istituzionalmente a queste licenze dovute per legge. Ma può svolgere un’azione politica di contrasto a questa ondata di soldi sognati e per qualcuno anche guadagnati che sommerge la città di Sassari. Il Comune dovrebbe trovare il coraggio di prendere esempio dalle sue donne, consigliere come Lalla Careddu o, per dirne un’altra in prima linea contro il gioco d’azzardo, l’ex assessora Maria Francesca Fantato. Giusto per ribadire che il grado di civiltà di una comunità si vede dalla forza di opporsi al gioco d’azzardo, questa merda che spargono a palate sulla nostra strada. E a chi la calpesta non porterà neppure soldi. Anzi!
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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