Aspettando il tramonto del suo tempo, zia Candida ha espresso il desiderio di vedere il Papa. Zia Candida, la sorella di mio padre. Mai sposata, mai una vera cattiveria sentita uscire dalla sua bocca nei miei 43 anni. E sono sicuro sia stato così anche per gli altri trentuno che non ho visto.
Zia Candida, una vita di cristiana sopportazione, una vita da cameriera ai piani degli alberghi della Costa coi direttori che ordinavano “non fatevi vedere dai clienti”, finita in una vecchiaia da seicento euro al mese di pensione.
Io non sono credente. Da tutto quel che ho letto e sentito, non credo proprio esista una vita oltre quella terrena. Anzi, credo sia un inganno. Un abuso della credulità popolare.
I teologi considereranno rozza e primitiva questa mia conclusione e spiegheranno che il Paradiso va inteso in altro senso, ma quel che conta è come questa promessa – un giorno, durante un’omelia funebre, un parroco l’ha chiamata “ricompensa” – venga compresa dalla gente. Credo che si viva oltre solo attraverso il ricordo delle nostre azioni e dei nostri gesti, se sapremo meritarci quel ricordo.
Considero grandiosa la lezione di Cristo e un esempio irrinunciabile il suo essere stato uomo tra gli uomini, però non sono credente. Non sento il bisogno di pregare per rivolgermi ad un’entità trascendente, capisco il ripetersi di riti che perpetuano la Chiesa ma non avverto la necessità di condividerli.
Eppure domenica, a San Pietro, ho sentito qualcosa.
Sarà la soggezione imposta dai luoghi. Sarà il sentimento della storia che ti corre come un brivido lungo la schiena. Sarà che davanti a quest’uomo, Francesco, ogni mia diffidenza si sgretola in un’istintiva ammirazione.
Della beatificazione di Paolo VI fissata per quella mattina abbiamo saputo solo un paio di giorni prima. Ci siamo messi in marcia all’alba, i primi colori del giorno ricomponevano agli occhi una Roma silenziosa. In mezzo a decine di migliaia di persone, mi sono chiesto come avrei potuto partecipare al loro entusiasmo.
Ho osservato, ho ascoltato.
Parroci come ufficiali a capo delle loro truppe di pellegrini, arrivate alla Porta Vaticana da ogni mondo.
Liberavano nell’aria lezzi di corpi non lavati abbastanza, perché reduci da notti trascorse in luoghi di fortuna, oppure perché inondati dai sudori di lunghe camminate affrontate a passo militare. Indossavano vestiti modesti e scarpe di seconda scelta.
Ho trovato una bellezza rivoluzionaria nel linguaggio di questi corpi: trasmettevano il senso di una rinuncia all’esteriore, al materiale. Come uno sberleffo.
Nella fila davanti a me aveva preso posto un giovane tedesco, pelle di latte e corpo d’atleta, lunghi capelli biondi raccolti in una coda adagiata su una maglietta rossa. Teneva aperto davanti agli occhi il libretto con le preghiere e i canti della Messa. Non ha perso una nota né una parola. Si alzava, si sedeva, si inginocchiava, flettendo i possenti quadricipiti. Ha seguito la celebrazione come sotto ipnosi e io, dagli occhiali del mio pregiudizio, ho creduto di avere davanti un fanatico.
Al segno di pace, mi ha stretto la mano e offerto un sorriso da bambino felice. Poi l’ho visto scherzare coi compagni di viaggio e sorseggiare una bibita al bar della Piazza. Un ragazzo come io lo sono stato, ma con altre certezze.
Ho incrociato gli sguardi di volti africani, asiatici, europei. Mi sono fatto un selfie con un frate che leccava un gelato, mentre la fiumana dei fedeli si apriva sulla città.
Ho pensato che tra chi divideva con me lo spazio di quella piazza, quella stessa sera, qualcuno avrebbe comprato sesso da una prostituta minorenne sulla Tiburtina e qualcun altro, il giorno dopo, avrebbe prestato denaro a strozzo o commesso qualunque altra malefatta.
Ma l’unità di quella moltitudine mi diceva pace e mi imponeva rispetto. Io, da non credente, l’ho colta e ne ho avuto serenità. E poco importavano, in quel momento, gli intrighi del Vaticano, le lotte di potere, Marcinkus e forse anche i dubbi sulla salute di quel Papa dalla voce flebile, impoverita dell’energia dei primi tempi.
Quella Piazza nascondeva una forza spaventosa dietro lo schermo rassicurante di sorrisi radiosi.
Mentre il Capo della cristianità salutava la folla, portato in giro come un trofeo su una macchina, mi è venuto in mente che, la sera prima, anche in una piazza di Milano decine di migliaia di persone avevano manifestato. Unite dall’odio, dall’ignoranza. dalla paura di perdere qualcosa che forse manco loro sanno cosa sia. Mi sono raffigurato quell’altra piazza, a Milano, come un quadro: uno stivale che schiaccia le dita di mani aggrappate ad uno scafo e poi si abbatte su volti imploranti, lasciandoli in pasto al mare. La mia piazza ascoltava Jeorge Bergoglio, quell’altra piazza Matteo Salvini.
La parola piazza non significa nulla. Esistono piazze e piazze.
La Piazza San Pietro dove sono stato io la ricorderò sempre con il sorriso definitivo di zia Candida, alla fine della festa. Non ho cambiato le mie idee, ma sono felice di esserci stato anche io e di avere goduto della felicità altrui.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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