Mi sa che ce la siamo già dimenticata, la strage di Peshawar. Eppure è passato solo un anno.
E’ il 16 dicembre 2014 quando un commando di talebani consuma la sua vendetta contro il governo pakistano, reo di aver condotto un’offensiva nel Waziristan del nord, territorio ad alta concentrazione di invasati islamici.
Scelgono una scuola. A frequentarla sono i figli dei militari dell’esercito. Entrano in sette, armati fino ai denti e pieni di esplosivo con l’obiettivo di fare una strage. Una strage di bambini. Ne falciano 132, Il bilancio finale è di 145 morti.
Numeri che dovremmo cercare di trasformare in immagini. Dovremmo cercare di vederli, di inquadrarli con la nostra immaginazione quei bambini, perché i nostri media hanno chiuso il capitolo in fretta, sorvolando la zona senza fermarsi. Ci serve un fermo immagine.
Peshawar non è Parigi. Non è nemmeno Beslan. La Francia è vicina, l’Ossezia è lontana ma è pur sempre Russia, il Pakistan è oltre l’orizzonte.
Eppure ciò che accadde a Peshawar proprio un anno fa è uno dei simboli di questa folle mattanza a tappe che parte da lontano e che, oggi, ci ritroviamo sotto casa. Era un campanello d’allarme, fatto squillare da chi ha intenzione di frantumare anche il più minuscolo granello di tolleranza che la nostra fragile civiltà possa conservare. L’ìnnocenza non è più un baluardo contro la crudeltà. Prendiamone atto.
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