A Sassari c’è un vicolo che per miracolo non è chiuso. Cioè, non porta da nessuna parte e se porta da qualche parte ci puoi arrivare meglio facendo un altro giro, così non calpesti merda e siringhe. E’ una specie di mondo sotterraneo, una dimensione cupa e provvisoria che si apre tra due dignitose, lussuose direi, microzone urbane, quelle dove i recuperi colti e danarosi di antiche abitazioni contribuiscono a salvare un po’ di centro storico molto meno del massiccio, disordinato e generoso intervento degli immigrati. In questo vicoletto, molti anni fa, ci trovai morto Tore La Piattola. Cioè, l’ingiuglio non era proprio questo ma io lo distorco per i motivi che capirete se andate avanti. Tore La Piattola era morto di droga. Non so come, si era procurato i contanti per l’ultima dose, si era seduto sul gradino di una delle porte murate di questo vicolo fantasma e si era fatto. Avvisato da un informatore, piombai con tanto di fotografo. Era lì da molto. Con laccetto al braccio e siringa a terra. Si stava già irrigidendo ed era rimasto seduto sul gradino, con la schiena appoggiata alla porta murata e gli occhi aperti che guardavano il muro di fronte. Ero tanto preso a farlo fotografare in quella posa cinicamente magistrale, che non guardai neppure che cosa guardava. Avessi avuto un barlume di pietà, mi sarei almeno posto il problema di vedere l’ultima cosa che aveva visto prima di crepare. Niente. Pensavo soltanto a incitare il fotografo che era un po’ impressionato, pur avendone visto almeno quanto me e avendo il relativo pelo sullo stomaco. E gli urlavo -Scatta, cazzo! Scatta! Ché fra un po’ arriva la polizia e ci mandano via. Vennero fuori due o tre immagini meravigliose. Da manuale. Roba da copertina di grande magazine. Quel morto seduto con il laccetto, gli occhi che ancora ci vedevano e il vicolo degradato. Lo sparammo sul giornale. Ma il meglio fu che per almeno un anno, anno di strage per overdose, a ogni morto di eroina noi, se non avevamo foto di attualità, pubblicavamo la “foto simbolo” di Tore la Piattola. Sino a quando il fattorino distribuì la posta e consegnò al redattore capo una busta su cui il destinatario non era specificato, c’era soltanto il nome della nostra testata. Venne da me e mi porse il foglietto senza parlare. Ricordo l’attacco: “Siamo i parenti di Tore La Piattola…”. Dicevano in un italiano stentato di avere molto sofferto per la morte del loro ragazzo e che il dolore si rinnovava ogni volta che vedevano pubblicata quella foto. Il redattore capo mi mostrò la cartella presa dall’archivio, ne estrasse le foto di Tore, dal retro pasticciato dalle indicazioni tipografiche delle tante pubblicazioni, le strappò in pezzi minuti che lasciò cadere sulla mia scrivania. Nessuno dei due disse una parola. Poco fa, attirato da un richiamo misterioso, sono passato dal vicolo. Deserto, come al solito, e le lame di sole si fermavano in alto nei muri che lo chiudono. In basso è sempre buio. Ho guardato il gradino e ho mormorato -Scusa, Tore La Piattola. E non ho neppure fatto la figura del cretino perché tanto a sentirmi non c’era nessuno.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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