Avevo pensato di dedicare lo spazio di oggi al piccolo Alfie Evans. Poi ho letto quanto terribile fosse la sua situazione. Ho letto che il suo corpo rispondeva in modo violento a ogni disturbo, facendo una delle poche cose che riusciva a fare: soffrire. Ogni stimolo poteva causargli convulsioni e scompensi gravi. L’unica cosa che poteva non peggiorare le sue condizioni, mi è parso di capire, era l’assoluto riposo, l’assoluto silenzio. Stamattina, quando ho saputo che il bambino era morto, l’idea di metterlo ancora una volta al centro anche solo di un goffo tentativo di ragionare, mi è parso troppo. Per questo motivo, il personaggio del giorno sono i suoi genitori e in particolare, per i limiti posti alla mia sensibilità dalla mia condizione di uomo, il personaggio del giorno è suo padre Thomas. In questi giorni scorsi ho visto usare in modo triste la parola “ideologico”. Penso questo: al netto delle speculazioni giornalistiche o delle certezze di chi ha capito tutto (scientisti da una parte e complottisti dall’altra), se ci è sembrato di assistere solo a una disputa ideologica è perché abbiamo occhi molto allenati a riconoscere le bandiere, un po’ meno a riconoscere le persone. Tipico di chi ha vissuto una lunga guerra fredda. L’Italia ha enormi difetti di funzionamento ma da più parti, e soprattutto dalla pancia del paese, ho visto emergere, al di là di tutto, un sentimento primitivo di affetto verso un bambino che moriva. Lo stesso sentimento che rivendico da sempre per ogni bambino che rischia di morire attraversando il deserto, su un barcone, in una favela, a Douma, a Gaza. E vorrei che solo sui bambini, quando soffrono, fossimo capaci di restare concentrati. Vorrei che non venisse persa questa capacità, forse la più umana tra le cose umane che resistono in piedi. Eppure ne ho sentito di ogni colore, anche contro i genitori di Alfie. E ripeto, se è una questione tra voi e Salvini, tra voi e la Meloni, provate a discernere, lasciate un angolo di silenzio per la pietà umana e andate a bisticciare, virtualmente, altrove. Io non so cosa possa sperare un padre che vede il suo bambino a un passo dalla morte. Credo che abbia il diritto di sperare in qualsiasi cosa, compreso un miracolo. Credo che abbia il diritto di usare tutti gli strumenti che la legge gli consente di usare, compreso il ricorso legale, compresi i social, compresa la preghiera, compreso lo scandalo e la strumentalizzazione delle immagini. E credo che abbia il diritto, almeno per una questione di umana pietà, a non essere giudicato per la sua disperazione e il suo bisogno di provare a fare qualcosa. Quelli che parlano come se sapessero tutto, hanno molta meno dignità di lui. Spero che non esista la parola definitiva, su vicende come quella di Alfie e spero che nessuno si sogni di scoprirla, o peggio ancora di saperla già. Una cosa che fa male, lo dico dal profondo della nullità che sono, è il rigore con cui la Medicina e la Legge sembrano affrontare casi come questo. Ho il sospetto che non sia solo professionalità, competenza e obiettività. Ho il sospetto che un sistema troppo grande, per restare funzionante, abbia bisogno di esercitare, da un certo limite in poi, anche una certa dose di spietatezza. E contro questo è diritto di chiunque alzare comunque la voce. Non so voi, ma io penso che il nostro destino non sia quello di diventare né onnipotenti né onniscienti. Per me la vita è ancora quella cosa che ha l’odore del terreno quando cadi in bicicletta, un attimo prima di provare a rialzarti; e -fateci caso- è lo stesso odore, come diceva una mia amica, di quando inizia a piovere, d’estate, sull’asfalto. C’è vita solo se possiamo cadere e rialzarci. Il resto, altro che onnipotenza, è un destino da polli in batteria. Spero, per i bambini di qualsiasi latitudine, che nessuno pensi mai di portar via loro quell’odore solo perché potrebbe nascondere, in qualche sfumatura, un margine di rischio non calcolabile nè sopportabile per le rigorose leggi che abbiamo bisogno di darci.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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