Io non riesco bene a spiegare cosa c’entrino l’una con l’altra le due cose che sto per scrivere, ma sento che in qualche modo sono in relazione. Parlerò della bonifica delle coste della Danimarca nel secondo dopoguerra e di Trump. Vediamo. Ogni giorno di più, mi convinco che Donald Trump sia una persona molto pericolosa. Non solo per le cose che dice – il valore di un uomo si misura anche dall’attenzione nel calibrare le parole, specie se escono dalla bocca del Presidente degli Stati Uniti – ma per la sottovalutazione della gravità delle cose che dice. L’annuncio di una nuova corsa agli armamenti nucleari ci riporta indietro di trent’anni e sembra un altro segno netto del nazionalismo fanatico del nuovo leader americano, ma mi pare che la notizia abbia avuto un risalto inferiore rispetto alla sua reale entità. Avverto una certa tolleranza, un “lasciamolo fare e lasciamolo dire” che stridono con queste prime allarmanti settimane di presidenza. Veniamo ora alla seconda notizia: la bonifica delle coste danesi dalle mine tedesche, dal maggio del 1945, raccontata nel film “Land of mine”. I nazisti disseminarono migliaia di mine nelle spiagge danesi perché convinti che gli alleati da quel fronte avrebbero contrattaccato. Invece lo sbarco avvenne in Normandia, quando però l’esplosivo già era innescato, in ordigni affogati nella terra a 20 centimetri di profondità. I danesi usarono i prigionieri tedeschi per il pericolosissimo compito della bonifica: si calcola che duemila di loro vennero impiegati nell’operazione, metà dei quali morirono o rimasero menomati dalle esplosioni mentre tentavano di neutralizzare le mine. La storia, come si sa, la scrivono i vincitori, perciò di quelle vittime di guerra si è sempre saputo poco: “erano tedeschi, se lo sono meritato”, sussurrava il sentire comune. Il sergente Rasmussen ebbe al suo comando una squadra di 14 ragazzini tedeschi per liberare dalle mine il tratto di costa di sua competenza. Ragazzini, poco più che adolescenti, trattati come criminali, come animali, come se fossero direttamente responsabili della follia di Hitler, come sputacchiere su cui sfogare la rabbia per le atrocità naziste. Minorenni costretti a strisciare nella sabbia, a tastarla con un bastoncino palmo a palmo per scovare le mine, poi ad estrarre delicatamente, a mani nude, il detonatore. Pochi secondi in cui, ogni volta, un tremore o uno starnuto poteva decidere della loro vita. Alla squadra di Rasmussen vennero imposti ritmi ben precisi: sei mine da disinnescare ogni ora per completare l’operazione in tre mesi, al termine dei quali ai prigionieri ragazzini venne promessa la libertà. Il sergente danese fu inizialmente spietato con quei mocciosi con la testa protetta dall’elmetto, le facce sporche e in dosso i panni laceri della divisa, messi a dormire in una baracca di legno chiusa da un passante, cui veniva permesso di mangiare una volta ogni due giorni. Poi morì il primo di loro. E morì con le braccia amputate dalla mina, chiedendo di poter tornare a casa, invocando la mamma come un bambino che abbia la bua, soccorso da altri bambini come lui. Bambini che, nei pochi momenti di pace, favoleggiano sul loro futuro, sulle donne che avrebbero voluto e sulla birre che avrebbero bevuto una volta tornati a casa, nel “Reich da ricostruire”. Davanti a questa rottamazione di ogni umanità, l’occhio di Rasmussen cambia prospettiva: non è più l’occhio del militare cui sono stati affidati prigionieri da sfruttare, ma l’occhio di un uomo fiaccato da sensi di colpa, che sente i suoi prigionieri chiamare la mamma e li vede suicidarsi, farsi esplodere camminando verso il mare, quando il dolore non concede salvezza. Prigionieri che non sanno se i loro padri, le loro madri, siano sopravvissuti alla guerra, se mai li rivedranno. Dei quattordici artificieri, dieci morirono. Ma agli altri quattro non venne concessa la libertà, come promesso. Furono spediti verso altre missioni di disinnesco, su altre spiagge della Danimarca. Bambini obbligati ad accollarsi le colpe di un dittatore pazzo e la banalità del male di chi lo sostenne.
Io temo che un uomo ignorante e rozzo come Trump non riesca a percepire il patrimonio dell’orrore lasciatoci in eredità dal secolo scorso. Non so se saprebbe commuoversi, seguendo la storia di “Sotto la sabbia”. Se ci riuscisse, non credo parlerebbe con tanta disinvoltura di riarmo nucleare, strizzando l’occhio alla guerra. Io non so se quando vaneggia di missili e muri pensi ai bambini del mondo. Gli auguro, un giorno, di convertirsi all’umanità, come accadde al sergente Rasmussen. Che oggi è il Personaggio del giorno.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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