Dice “fuori i talebani dalla città” e in quella parola, talebani, finisce di tutto. Anche chi i talebani, quelli veri, li considera nemici e li combatte sul serio, con le parole e con le armi, spesso a costo della vita.
Rodi è andato via dalla Turchia, la sua terra, perché non è facile essere curdi in un Paese dominato da un dittatore poco incline alla tolleranza. Ha frequentato una scuola di giornalismo ma, quando si è accorto che la libertà di stampa era pura utopia, ha fatto i bagagli e si è messo a preparare doner kebab (“carni di vitello e tacchino. I kebab non sono tutti uguali”) in un piccolo locale al centro di Olbia. All’interno, appesa a una parete, c’è la carta geografica del Kurdistan. Serve a ricordare che i curdi, trenta milioni di persone, sono il più numeroso popolo senza Stato in circolazione.
Rodi ha trent’anni, un bimbo in arrivo e un pensiero fisso. Tornare a casa. Prima o poi succederà, anche se certe battaglia sembrano non avere fine e il fatto di stare in una zona che assomiglia a una polveriera non suscita pensieri ottimistici. Ci sono curdi musulmani, cristiani, yazidi, zoroastriani e seguaci di altre religioni antichissime, persino antecedenti al Cristianesimo. Sono abituati alle persecuzioni. Vivono in Turchia, Siria, Iran, Iraq e vantano una consistente presenza in Europa, specialmente in Germania. Possono contare su una rete capillare di appoggi in ogni paese e centri di riferimento ai quali gli esuli possono rivolgersi. Quello curdo è un popolo nomade, fiero e orgoglioso delle proprie tradizioni, per nulla disposto a farsi sottomettere. Saddam Hussein e la stessa Turchia hanno sterminato decine di migliaia di curdi utilizzando le armi chimiche, stragi di cui poco si è parlato e poco si ricorda.
Poco si parla anche dei peshmerga, i combattenti curdi che hanno inflitto sonore sconfitte in battaglia ai miliziani dell’Isis in Iraq. Soldati e soldatesse. Come Ayse, la ragazza con il cappuccio rosso che, qualche giorno fa, è stata uccisa a 24 anni in battaglia da una raffica di mitra. Anche lei aveva deciso di abbandonare la Turchia, dopo essere stata arrestata come oppositrice di Erdogan e scampata a una richiesta di 100 anni di galera da parte della pubblica accusa. Sono centinaia le donne curde in prima linea, tutte con un ultimo proiettile riservato a se stesse, nel caso in cui dovessero cadere in mani nemiche. Meglio la morte che il trattamento riservato alle donne dai miliziani islamici. “Noi non vogliamo – dice Rodi – che qualcuno ci imponga la propria religione. Ognuno ha il proprio Dio ma non può uccidere in suo nome”.
Sono tempi difficili, di odio dilagante e paure da esorcizzare. Occorre tenere i nervi saldi ed evitare di farci trascinare nella trappola che nega le differenze tra gli uomini accomunandoli in base al colore della pelle o alla religione o agli usi e costumi. Di fronte alla resistenza di popoli come quello curdo, alla loro infinita battaglia per il diritto all’esistenza, dovremmo toglierci il cappello e provare a combattere l’ignoranza di comodo che marchia con un’etichetta d’infamia qualsiasi persona arrivi da quell’angolo di mondo dove, tanto tempo fa, sbocciarono i primi fiori della civiltà.
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