Adesso c’è uno che pare abbia vinto sessanta milioni grandi grandi di euri al Superenalotto, ma ce ne sono stati anche sfondati dalla “Dea Bendata” (quanto ci piace a noi giornalisti quando possiamo dire queste cose qua) al Gratta e Vinci. Roba sempre a livello di terzo rifinanziamento del Piano di Rinascita della Sardegna. E sempre gli danno la caccia. Non fai che leggere o sentire alla tv: “Caccia al vincitore”. E cosa ti ha fatto il vincitore che gli devi dare la caccia? A te te li ha rubati quei soldi? No? E allora lascialo in pace, il vincitore. Che poi questi vincitori da somme che non so neppure come siano fatte davvero mi piacciono. Perché sono l’aspetto innocuo del gioco. Roba talmente fuori del comune che non mi sembra neppure malata, come invece mi appare quello stillicidio davanti alle slot. E’ vero che anche altri giochi mi dicono siano piuttosto rappresentati dai pazienti gravemente dipendenti dall’azzardo e in cura al Serd di Sassari. Ma le vincite da sessanta milioni mi sembrano uscire dalla normalità, dalla morbosità. E’ come una favola, un gatto con gli stivali delle sette leghe che nessun malaticcio si può sognare di inseguire. Siccome anche ai miei tempi c’era il vizio di dare la “caccia al vincitore”, di queste prede ne ho catturato due. E in entrambi i casi dopo la soddisfazione di averle prese le ho lasciate libere, come quei pescatori che non si capisce perché rompono le balle a certi pesci enormi, traforandoli con ami e arpioni e dopo la fotografia fanno gli ecologically correct e li ributtano in mare. Il primo caso è roba di più di quarant’anni fa e la caccia si scatenò intorno al vincitore di 150 milioni di lire con un Tredici al Totocalcio. Ora tenete conto che 150 milioni di lire degli anni Settanta non erano solo 75mila euro di adesso, ma una somma che a quei tempi faceva di te una persona ricchissima, tu e i tuoi figli vita natural durante, se ci stavi un po’ attento e non ti spendevi tutto in ballerine. La schedina era stata giocata nel bar di un quartiere popolare di Sassari. Tra gli avventori che interrogavo come fossi un poliziotto che cercava un molestatore di bambini, ce n’era uno che si vedeva che moriva dalla voglia di fare vedere che ne sapeva. Sul momento non gli do corda, poi lo aspetto fuori e, da soli, gli strappo tutti gli indizi che mi può dare. Vado a parlare con il capoufficio di un’impresa esterna di una grande azienda di comunicazioni e prendo notizie di un loro operaio, chiedendo in particolare se per caso si sia assentato improvvisamente dal lavoro. -Sì. All’epoca la privacy era roba da venire. Pensate che la Settimana Incom riprendeva ai giardini le domestiche in libera uscita che pomiciavano con i soldati in libera uscita e nessuno rompeva il culo agli operatori, né fisicamente né giuridicamente. Insomma, piombo a casa dell’operaio con il fotografo e faccio irruzione come fossi Nick Carter. -So che il vincitore è lei. Mi faccia vedere la matrice. Quello, invece di mandarmi affanculo, fa un cenno alla moglie e andiamo tutti in camera da letto. Da un armadio tira fuori un paio di pantaloni arrotolati. Nel frattempo mi accorgo che sulla soglia si affollano visi di bambini. Colgono l’occasione di vedere l’oggetto misterioso che negli ultimi giorni aveva sconvolto il tran tran familiare con urla di gioia e ripetute raccomandazioni -Zitti, per carità. Nessuno deve sapere. Insomma, la donna srotola i pantaloni, da un tasca di dietro cava fuori uno di quei portamonete di finta pelle con la chiusura a molla, dal portamonete esce una bustina da biglietto da visita e dentro la bustina c’è la matrice. Controllo. E’ quella. -Complimenti. -Ma ora mi mette sul giornale? -Sennò mi licenziano. -Aspetti almeno che riscuota. Devo parlare con un avvocato che mi ha detto che mi porta da un notaio e che ci pensa lui. -Farò quello che posso. Usciamo dalla casa, siamo ancora sulle scale, e dico al fotografo. -Asco’, Angelo, tanto né a te né a me ci pagano a cottimo. Se questa storia ce la teniamo noi non ci perdiamo niente. -Filighè, mi sembravi un po’ più figlio di puttana. Guarda che così di carriera ne fai poca. Mai previsione fu così azzeccata. Al ritorno in redazione dico al capocronista -Niente da fare. Introvabile. -E quella pista che stavi seguendo che sei due giorni fuori senza fare un cazzo? -Falso allarme. Insomma, non ho mai capito se quel giorno ho trasgredito nei confronti della professione o del mio capocronista. Mentre invece, per il secondo caso, sono sicuro di avere trasgredito solo nei confronti della professione perché il capocronista ero io. Ma non posso entrare in maggiori particolari per due motivi: il primo è che se qualcuno dei cronisti di allora mi telefona e me ne chiede conto posso sempre rispondere -Ma va, è una balla, mi sono inventato tutto. Figurati se buttavo via una notizia così, mi conosci. L’altra è che non è passato abbastanza tempo e non voglio che quell’altro ex poveraccio “baciato dalla fortuna” (un’altra roba che uso sempre con soddisfazione, come fossi sempre in servizio) e uscito da un giorno all’altro dalla condizione di poveraccio, venga identificato e ne abbia rotture di balle.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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