Di peccati, pure inconfessabili, io ne ho. Che poi la gravità di certi peccati è sempre legata alle unità di misura individuali. Per esempio io ho sempre vissuto con una certa sofferenza la contraddizione tra la mia indole e certi atti spietati che più volte sono stato portato a fare da una professione che allora era più spietata di adesso. L’esempio classico è quello di entrare nella casa di uno morto tragicamente fingendo di condividere il dolore della famiglia soltanto per avere la foto del de cuius ancora vivo e sorridente magari con gli altri familiari. Allora non c’era neppure la privacy e se nella foto ci usciva pure un minore non c’era bisogno di pixellarlo. Una volta un vecchio generale mi raccontò: non mi è mai successo di ammazzare nessuno per fortuna ma conosco molti soldati miei coetanei che lo hanno fatto; ho grande comprensione per quelli che non ne parlano mai e vivono certi ricordi con disagio e dolore appena stemperati dalla consapevolezza di avere agito per dovere, ma quelli che quasi se ne vantano, quelli che mi accorgo non hanno provato niente mentre sparavano o affondavano la baionetta, ecco di quelli ho profonda diffidenza. Ecco, quindi io mi sento un verme non per le volte che ho ingannato con finte lacrime la famiglia di un morto per averne le foto, ma per le volte che poi me ne sono vantato ostentando una cinica intraprendenza e un coraggio che neppure davvero avevo, altrimenti avrei fatto carriera. Comunque con gli anni questa necessità di essere e soprattutto mostrarmi duro a tutti costi si è attenuata, soprattutto negli ultimi miei tempi di cronista mi è venuto più agevole conciliare dovere e temperamento, aiutato in questo soprattutto da una concezione più moderna e civile del giornalismo che, nonostante i luoghi comuni da piagnisteo della mia generazione, è migliore sul piano generale della cultura dell’informazione e più proficua professionalmente di quella che vigeva quando ho cominciato a lavorare. C’era già in tv ER Medici in prima linea, la fiction con un esordiente George Clooney, quella serie che lanciò frasi del tipo “presto, lo stiamo perdendo”, quando accorsi nella parte bassa del Corso, dalle parti di Porta Sant’Antonio, dopo la notizia di un’esplosione. Roba di bombole di gas, mi sembra di ricordare. E assistetti, lì in un cortiletto dove si affacciava una piccola trattoria economica in cui da ragazzo ero entrato mille volte, a una scena di rianimazione, di tentativo di rianimazione, del tutto identica a quelle di ER. Non era la prima volta, mi era già accaduto spesso, ma chissà perché quel pomeriggio finalmente mi sentii libero dalla “scorza” che per decenni mi aveva fatto da corazza in simili casi e piansi insieme alla rianimatrice in tuta rossa che singhiozzava accarezzando quel viso morto che pure vedeva per la prima volta e diceva ai suoi colleghi che ancora si affannavano intorno al cadavere: “E’ inutile, ragazzi, ormai è inutile, lasciamolo in pace”. E io davanti a quell’eroina mi sentivo un verme perché il mio tesserino di giornalista mi consentiva di accedere a quell’atto supremo di umanità senza averne diritto, soltanto per soddisfare la mia curiosità. Forse è la sensazione forte di dolore di quel pomeriggio che ancora mi aiuta a superare il rimorso per tutte le centinaia di volte che quel sentimento lo avevo represso. E ora però mi chiedo come si sentano quelli che con il telefonino riprendono la gente che soffre o che muore, la gente che viene umiliata dai più forti e violenti o che si umilia chiedendo aiuto per mangiare. Se io certe cose le ho fatte perché era il mio lavoro e tuttavia mi sento una merda, voi come vi sentite?
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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