Caro amico che dai fuoco alle scuole, oggi sei il mio personaggio del giorno. E ti auguro che le cose nella vita ti vadano come a un ragazzino che conoscevo più di cinquant’anni fa e che con i suoi amici aveva alcuni difetti tra i quali un vizietto simile al tuo. Ma poi è riuscito a smettere. Che io ricordi, questo ragazzino e la banda di cui faceva parte non hanno mai dato fuoco alle scuole o alle macchine. Ma ci sono andati vicini a fare qualche seria stupidaggine. A esempio, sempre in materia di fuoco, quando Sassari era cinta di discariche abusive (non crediate che sia roba di adesso, la mondezza agli inizi degli anni Sessanta era una delle piaghe d’Egitto sassaresi) capitava alle volte di vedere volute di fumo nero che si levavano da qualche zona della periferia e dopo un po’ si udiva l’ululato monotono delle sirene, ché ancora i pompieri non avevano la sirena bitonale alla francese. Il fuoco era soltanto una delle loro espressioni, non è che fossero monomaniaci. Amavano a esempio rubare. Ma la scelta dell’obiettivo non era dettata dal valore del bottino, bensì dall’elevato grado di rischio e quindi di divertimento nell’esecuzione del colpo, oltre che dalla singolarità del luogo o della vittima prescelti. Ricordo a esempio che volentieri praticavano, traendone svago, il furto sacrilego. Candele a San Pietro, spesso, che poi magari venivano usate come micce negli incendi delle discariche. Una volta uno della banda fu acchiappato da un frate che si era posto in agguato dietro un santo di legno da chissà quante ore e il mite francescano accompagnò il ragazzo a calci in culo sino a viale delle Croci, mentre il resto della banda si teneva a distanza con le candele in saccoccia e deplorando la mancanza di scatto del complice che si era fatto sorprendere. Uno dei momenti di maggiore soddisfazione di questi banditi fu quando uscirono sul giornale, in maniera per loro fortuna anonima, sotto il titolo “Ladri sacrileghi a Padre Manzella”. Credo che uno di questi farabutti conservi ancora il ritaglio. I piccoli gangster avevano preso di mira una singolare lampada che si trovava nel sepolcro e che li affascinava perché brillava di un tremore elettrico che simulava una fiamma votiva. Fingendo quindi ripetuti atti di devozione verso le spoglie del sacerdote in odore di santità, uno dei delinquenti a turno fregava la lampada mentre gli altri distraevano i fedeli orando ad alta voce (conoscevano soltanto il Padre Nostro e l’Angelo di Dio, ricordi di una ancora recente fanciullezza). Avvenne tre o quattro o volte, sino a quando all’ennesimo tentativo trovarono la lampada-fintatorcia protetta da una gabbia di ferro inchiavardata al muro. La presero male, come fosse un’offesa. Il più esperto di loro successivamente fece un sopralluogo, scoprendo che le viti dei tasselli che ancoravano la gabbia al muro non erano protette. -Un lavoro da dilettanti- commentò con disprezzo, uscendo dal sepolcro dopo l’ispezione. Il giorno dopo fecero il colpo nel solito modo, con l’unica differenza che dai finti oranti di copertura non si staccò un solo gangster ma due, ciascuno munito di cacciavite a taglio. In pochi secondi furono rimossi sia la gabbia che la lampada votiva. E vennero fottuti entrambi. E fu allora che il giornale, con orgoglio dei giovani malviventi, si occupò della cosa. Altro singolare furto lo compirono in una centralissima galleria d’arte, dove in cinque o sei circondarono il pittore che esponeva facendogli mille domande sulla sua arte e questi, per niente insospettito che dei ragazzini che palesemente non capivano un cazzo di quello che diceva fossero così interessati ai suoi quadri che altrettanto palesemente non erano in grado di acquistare, non si accorse che uno di loro gli fregava un’enorme scatola di colori a quattro strati con centinaia di tubetti. Che cosa se ne fecero? E chi lo sa? Furti un po’ utilitaristici e quindi più peccaminosi li compivano alla Upim di piazza Demolizioni, dove si impossessarono, a esempio, dei primi pennarelli multicolore arrivati a Sassari, sfoggiandoli a scuola quando pochi se li potevano permettere. Uno di essi, una volta, sotto Natale fottè un intero presepio che portò a casa e che credo in quella famiglia si stia ancora usando nonostante se ne sospetti la provenienza criminosa. Facevano cose tremende, quei gangster. Avevano delle fionde costruite con forcelle ricavate facendo danni nei viali cittadini e fettucce ritagliate dai pneumatici di bicicletta, qualche volta ottenendo vecchie gomme dai meccanici, altre volte prendendosele senza permesso dai depositi poco sorvegliati accanto alle officine. E con queste fionde, non è che come i ragazzini normali sparassero ai passerotti. No, dei passerotti non gliene fregava niente. Sparavano ai cazzi dei cavalli. Quelli delle carrozzelle che stavano in fila ai giardini pubblici, vicino all’Emiciclo, in attesa di clienti. Nascosti dietro agli alberi, prendevano accurati la mira e raggiungevano lo scopo se riuscivano a fare sollevare la povera bestia sulle zampe di dietro con possenti nitriti, mentre il fiaccheraio tentava di tenerla giù con le redini bestemmiando contro il cavallo e contro “quei figli di bagassa” che se li prendeva gli faceva non so che cosa. Le solite esagerazioni. Quando erano in terza media si costituirono tutti in una “Banda del Cobra”. Detta così perché, sempre alla Upim delle Demolizioni, avevano rubato un revolver Cobra a testa che caricavano, anziché con le normali Super Bum in materiale plastico e con poca polvere da sparo, con certe capsule metalliche da scacciacani che avevano una dose doppia di esplodente e facevano un casino da matti e ti facevano tremare la pistola in mano a ogni colpo. Nel tamburo di colpi ce ne stavano sei. E questi malfattori, quando faceva buio, andavano ai giardini pubblici e individuavano tra le coppiette sulle panchine quelle in acciupo disperato, quelle che era chiaro che poteva succedere qualsiasi cosa ma loro avevano la testa (e il resto) altrove. I mascalzoni entravano nell’aiuola alle spalle della panchina prescelta e strisciavano nell’erba per decine di metri, alle volte con sacrificio di calzoni e giacche. Arrivati alle spalle della coppietta, badando a non fare un fiato, sollevavano lentamente l’arma e la scaricavano in rapida successione nelle orecchie dei fidanzati. Prima che il maschio alfa della coppia si riscuotesse dal trauma e intraprendesse l’inseguimento, la banda era già lontana. Sospetto che in questo tipo di colpo ci fosse anche una inconscia invidia dei farabutti nei confronti del pomiciante. Erano in età di sognare di essere al suo posto. E infatti spesso, che io sappia, lo sognavano. Non si ebbero mai incidenti, come nel caso del fratacchione di San Pietro, anche se si ritiene che più di uno dei maschietti colpiti dalla banda abbia avuto in seguito problemi erettili dovuti allo spavento. Ecco, caro ragazzo che dai fuoco alle scuole, io ti auguro che tu riesca a smettere all’età giusta, come questo tipo che conoscevo io e del quale ti ho parlato. E che soprattutto le tue motivazioni siano simili alle sue. Motivazioni che tutto comprendevano meno che odio, frustrazioni, voglia di dimostrare chissà che cazzo, rancori familiari eccetera. Ti auguro che dietro la tua torcia di incendiario ci sia soltanto quel lampo di follia adolescenziale che bisogna sperare che si spenga al più presto e prima che succedano guai seri. E che restino solo bei ricordi. Buon anno anche a te.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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