Colpisce moltissimo il ragionamento che inseguono alcuni partiti indipendentisti sardi: per governare la Sardegna non dobbiamo unire i partiti ma avere un programma condiviso. Dunque, come il paradiso, anche il partito unico può attendere. Non voglio addentrarmi nelle specificità politiche della costellazione indipendentista. Registro però più di una contraddizione: solitamente uniti si vince, solo se si fa “squadra” si ottengono risultati e i misantropi solitamente in politica non funzionano. Soprattutto se si deve costruire un sogno non è il caso di puntualizzare, ridisegnare, ricondurre, riprodurre, disfare e poi provare a costruire. C’era l’idea che il partito dei sardi potesse essere il crogiuolo ideale su cui unirsi o perlomeno il punto di partenza. Ma il Pds non è ben visto da altri movimenti. Il leader dei Rossomori Gesuino Muledda chiede orizzonti più ampi, non basta vincere, come è accaduto alle ultime elezioni amministrative, in un paesino come Girasole od ottenere un piccolo exploit a Oristano. A governare lo Stato sardo ci vuole ben altro. E ha ragione. La soluzione però non è semplice. Muledda suggerisce uno schieramento alternativo al centrodestra e al centrosinistra e afferma che il momento è maturo. Lo sento da troppi anni ormai. Spaccare il fronte dei partiti nazionali, essere indipendenti dagli schieramenti tradizionali, rappresentare solo i sardi e la Sardegna. Tutte belle parole che si evaporano ad ogni elezione quando il grande esercito dei partiti indipendentisti e movimenti vari divisi raggiungono il mirabolante traguardo dello zero virgola e l’unità (solo virtuale) porta a casa percentuali modestissime che gli permettono solo tortuose alleanze e non servono per incidere sulla politica della Regione come essi vorrebbero. Anche Pierfranco Devias, di Liberu, in una dichiarazione al quotidiano La Nuova Sardegna afferma che “il partito unico non lo vuole nessuno e alla fine è bene che non ci sia. Un partito unico non consentirebbe un’espressione democratica delle diverse posizioni dell’indipendentismo”. Anche lui ha ragione: ognuno, a suo modo, ha in testa un personale disegno della Sardegna, ha un’idea su come dovrebbero funzionare i trasporti, la sanità, il welfare; come si dovrebbe agire nei mercati di lavoro, nel commercio, nell’industria; quali dovrebbero essere le sfide che riguardano l’Università sarde. Però mi chiedo: ma siamo davvero così sicuri che non sia necessaria una sintesi? Se tutti rappresentiamo il nostro modo di vedere le cose e non abbiamo nessuna intenzione di ascoltare gli altri siamo certi che tutto questo faccia bene alla Sardegna? Credo, ma lo dico sottovoce, che questo dividere e uno unire più che indipendentismo sia semplice individualismo e le parole (e, quindi, anche i concetti) non sono proprio sinonimi.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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