Oggi sono 24 anni dalla morte di Paolo Borsellino. Ognuno a suo modo ne ricorda il sacrificio consapevole, perché Borsellino sapeva bene di non poter sfuggire al destino che la mafia aveva deciso per lui. Abbiamo bisogno di simboli, di uomini che rappresentino il senso dello Stato in tempi di massima sfiducia per lo Stato, serve tenere viva la figura di Borsellino, specie per i giovani che non lo hanno conosciuto e delle Istituzioni sono stati abituati a vedere solo corruzione e malaffare. La settimana scorsa, a Olbia, hanno impedito a Rita Borsellino di tenere un intervento pubblico per ricordare la figura del fratello Paolo. Nella triste vicenda della censura subita da Sabina Guzzanti, solo marginalmente abbiamo segnalato che questa rimozione coatta della memoria ha comportato anche la bocca tappata alla sorella del giudice ucciso dalla mafia, impossibilitata ad intervenire per il divieto di proiezione imposto dal Comune di Olbia. Mi convinco sempre più che questa presenza non sia stata solo un dettaglio, nella dinamica di quella giornata olbiese. La sorella del giudice Borsellino che accetta di commentare un film vale di per sé la legittimazione di quel film, ne rafforza la credibilità, al di là della discussa e controversa figura della regista. Nell’affermazione del principio della libertà d’espressione non c’entrava nulla la Guzzanti, non si discuteva sulla sua simpatia o antipatia. E questo vale anche per i responsabili della censura, cui interessava poco dell’autrice e molto di più dei contenuti del film. (Anche se poi, pateticamente, i sostenitori del sindaco di Olbia hanno trasformato la disputa in un referendum contro la Guzzanti). Ecco perché ancora oggi è giusto difendere la memoria di Paolo Borsellino ed è giusto arrabbiarsi per certe ambigue censure. Perché è in atto da sempre un tentativo di rimuovere il significato di quella figura, la storia che le stava attorno quando venne innescato l’esplosivo in via D’Amelio. C’è gente che vuole ridurre le commemorazioni ad atti formali, scavando un fossato di silenzio attorno ai monumenti. Una delle cose che ricordo con più vergogna, nella vicenda di Paolo Borsellino, fu il tentativo di censurare l’ultima intervista che il giudice aveva rilasciato a due giornalisti francesi, poche settimane prima di essere ucciso, nella quale parlava dei legami tra la criminalità organizzata siciliana e l’imprenditoria. Fu una indegna rissa da bar, nella quale molti giornalisti e opinionisti si schierarono per il divieto di trasmettere quel nastro. Era un no a prescindere, indipendentemente dal contributo che quel documento avrebbe potuto offrire alla verità sull’assassinio del giudice. Non la ebbero vinta. Sono passati 24 anni, poco è cambiato. Bisogna continuare a cercare. E a questa gente bisogna continuare a non darla vinta, se davvero si vuole onorare la memoria di Paolo Borsellino.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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