Oggi c’è questa revival di “Padre padrone”. Il film dei Taviani, dico. Che è una cosa giusta. Grande film. Basato su un grande libro, uno dei più grandi della nostra letteratura. Perché alla base c’è un’operazione da demone creativo: riconoscere ciò che tutti abbiamo sotto gli occhi e raccontarlo. Voglio dire. Provate a pensare alla genialità di “Padre padrone”, una condizione esistenziale antica quanto la cultura pastorale mediterranea e diffusa in ogni luogo e in ogni tempo di questa civiltà. Ma di cui nessuno scrittore (compreso Omero) aveva apprezzato l’essenza antropologica e lirica sino a quando non lo ha fatto Gavino Ledda. E secondo me Gavino lo sapeva. Cioè, non era una scoperta casuale. Quando ha cominciato a raccontare era cosciente del fatto che aveva affondato il suo bisturi di analisi e di poesia in una piega inesplorata eppure visibilissima della nostra pancia antica più dei nuraghi. Io una volta mi sono imbattuto in un momento creativo della genialità di Gavino. E fu emozionante perché è una di quelle circostanze nelle quali ti sembra di assistere a un disvelamento, l’agnizione di una tragedia greca. Fu una notte d’inverno in cui squillò il mio telefono di casa, ancora non c’erano i cellulari. Era lui. Tornava da una gita in Costa, non so più se proprio dentro i confini della costa Smeralda o lì nei dintorni. -Te ne devo parlare, te ne devo parlare assolutamente. Ti ho cercato al giornale ma eri già andato via. Ora è molto che non lo sento, ma allora era così, ero abituato a questi suoi accessi di stupore che doveva assolutamente manifestare. -Magari domani, Gavino. Se passi a Sassari, ti aspetto. Oppure ti vengo a trovare a Siligo uno di questi giorni. -No, non è “uno di questi giorni”. E’ adesso. Ho fatto una scoperta straordinaria. E mi raccontò dei villaggi che aveva visitato, tutti deserti perché non era più stagione. E sin qui niente di eccezionale, perché l’abbandono invernale dei villaggi turistici non era una novità e anche lui lo sapeva. Era roba esplorata sul piano politico e su quello letterario. Però capivo che andava verso qualcosa di importante. E chiesi impaziente -E allora? -E allora? Allora ho visto un paese, un paese vero e proprio più grande di Siligo, molto più grande. Con le case, i negozi e tutto. Tutto chiuso. E pensa, non ha neppure il sindaco. Rimasi folgorato. Lo sappiamo tutti che i grandi, enormi villaggi delle vacanze non hanno il sindaco. Ma percepirlo come un’offesa, una deviazione, come fece Gavino, era capire il senso vero dell’urto che una certa concezione di turismo, oggettivamente, ha inferto a un ordine avvertito da Gavino come antico e perfetto. Siligo era l’unità di misura: un centro che ha bisogno di un sindaco, un essere umano che rappresenta l’umanità di quel gruppo di case, la sua funzione di aggregazione, di protezione, di vita comune. Il sindaco simbolo di un pezzo di umanità associata non come un gregge di pecore ma come pensanti che si governano alla ricerca di giusto benessere. Ciò che era violato da quel villaggio più grande di Siligo. E senza sindaco. Non ti dice, Gavino, se sia giusto o sbagliato. Così come in “Padre padrone” non ti dice se il comportamento di Abramo fosse giusto o sbagliato. Ti dice solo che è così. E che ci riguarda tutti.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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