Ho ripescato un post che scrissi l’8 novembre 2012, subito dopo la seconda elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Sembrano parole di un tempo lontano e sconosciuto. E invece sono passati solo quattro anni.
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Io dico che se non fosse stato nero (o abbronzato, per citare un cabarettista improvvisatosi statista) forse le elezioni del 2008 non le avrebbe vinte e noi non lo avremmo amato più di un Bill Clinton qualunque. E magari la riconferma se la sarebbe dovuta sudare di più, perché se l’elettore americano avesse asetticamente osservato i dati sulla disoccupazione galoppante avrebbe scelto l’altro.
Il fatto è che abbiamo un disperato bisogno di sognare.
Da questa e dall’altra parte dell’Atlantico. Abbiamo bisogno di fiducia come di pane, di entusiasmo come dell’aria.
Chi è disoccupato oggi lo sarà anche domani. Chi oggi combatte contro un tumore o un’altra malattia senza speranza non guarirà perché Obama è stato rieletto.
Credo anche che buona parte di chi oggi festeggia la vittoria del presidente non sappia granché dei suoi programmi politici, dei suoi successi e delle sue sconfitte. Però ne gioisce.
Perché?
Perché Obama è nero, ma nonostante l’handicap cromatico è diventato presidente della più grande potenza dell’Occidente; perché Obama ha trascorso un’infanzia sballottata tra Indonesia, Africa e Stati Uniti, eppure è diventato l’uomo più potente del mondo; perché Obama è figlio di genitori poveri e divorziati, non di un petroliere texano con sigaro stretto tra le mascelle serrate e decappottabile bianca. Perché Obama ha una nonna che vive in un villaggio in Africa, eppure e l’inquilino della Casa Bianca. Perché Obama – e questo tutti lo sanno – ha reso davvero gli Stati Uniti un paese civile con quella epocale riforma sanitaria.
Obama aveva nella sua biografia ogni valida giustificazione per spiegare ogni possibile sconfitta. Le ha trasformate nella forza del suo successo.
Oggi più che mai non sappiamo che sarà delle nostre vite. Non sappiamo se ce la faremo a pagare mutui, a far sorridere i nostri figli, se il colesterolo nei prossimi esami del sangue continuerà a preoccuparci, se potremo conservare il nostro lavoro o riusciremo a trovarne uno. Ogni mattina ci svegliamo da soli, soli nella nostra stanza con questi assilli.
Il mondo non ama Obama solo perché combatte l’incubo di un ritorno alla furia guerrafondaia dei repubblicani alla Bush o perché sa essere convincente quando parla al pubblico.
Il mondo ama quel bambino nato cinquantuno anni fa, in un luogo sconosciuto del mondo, che secondo le matematiche della sociologia non poteva che essere un ultimo. E invece è l’uomo più potente al mondo.
Amiamo Obama per la speranza che ha regalato a ciascuno di noi.
Regalare speranza, oggi, è il mestiere più difficile.
Persino più difficile che essere presidente degli Stati Uniti d’America.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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