Già me lo ricordo Montelepre. Quello di allora, dietro il manicomio e vicino alla caserma nuova dei carabinieri. Prima non c’ero mai stato. Ma quando ho cominciato a fare il cronista nelle aule di giustizia me lo sono trovato nei rapportini di polizia e in certe facce magre magre e piene di ossa che sembravano quelle dei film di De Sica e Rossellini e nei polsi incatenati che i carabinieri liberavano con una chiavetta apposita quando i proprietari si sedevano sul banco degli imputati. Erano i “residente a Rizzeddu”. Non in via Asproni o vicolo Godimondo o in via Pascoli, come negli altri rapporti di polizia. Residente a Rizzeddu, il quartiere, perché non si poteva scrivere Montelepre dato che quello era un informale ingiugliu delicatamente appioppato dai sassaresi per evocare la piccola patria mafiosa della Sicilia quando parlavano di quel gruppo di ex capannoni militari dove avevano trovato riparo donne, uomini e bambini, tanti bambini, scacciati o fuggiti da altri luoghi persino peggiori. Era un ghetto. Un ghetto classico. Se fossi stato un maestro e gli alunni mi avessero chiesto cosa significasse esattamente “ghetto” nell’accezione moderna del termine, li avrei portati a visitarlo. Come feci io, tante volte e con mille scuse “di lavoro” prima che lo smontassero per ricrearlo, sempre sotto forma di ghetto, a Santa Maria di Pisa. Innanzitutto capii perché nei rapporti di polizia non c’erano i nomi delle vie. Semplicemente perché a Montelepre non c’erano vie. Cioè, sul piano materiale c’erano, perché i capannoni erano piazzati ordinatamente, come un accampamento, e formavano strade e piazze. Era la toponomastica a mancare. Mi parve il supremo, forse inconscio ma effettivo disprezzo dell’amministrazione comunale nei confronti di questi disperati. Non vi riconosco, formalmente voi non esistete. Lo scrissi anche. Trovai il modo di infilare il concetto in qualche cronaca giudiziaria. La cosa fece un pochino di scandalo. Erano tempi in cui se la Nuova Sardegna di Nino Rovelli criticava su questioni di fondo gli enti sostanzialmente democristiani, qualcuno se ne doleva. E ci fu chi al giornale mi rimproverò non per la cosa in sé, che non venne ritenuta una stupidaggine, ma per averla somministrata surrettiziamente al lettore anziché in un articolo di manifesta politica comunale possibilmente concordato con i miei superiori. Comunque, un po’ di tempo dopo mi incazzai come una biscia chiusa in un angolo da una banda di monelli quando venne pubblicata la ricerca su Rizzeddu compiuta da un gruppo di sociologi. Si rimproverava alla cronaca nera della Nuova di trattare in maniera razzista (a quei tempi però mi sembra che si usasse di più “classista”) gli abitanti del ghetto. Appunto perché scriveva “residente a Rizzeddu” e non indicando la via, quasi per rimarcarne lombrosianamente una provenienza criminale. E venni autorizzato a scrivere un pezzo nel quale, dopo avere fatto notare ai sociologi che il mio giornale aveva denunciato questa storia dei nomi delle vie molto prima di loro, chiedevo ai ricercatori come cazzo avessero fatto a compiere una ricerca su quel quartiere senza presumibilmente averci messo piede, visto che ignoravano che le vie non avevano nome. Insomma, io però ci misi piedi un mucchio di volte, in quegli anni Settanta, gli ultimi di vita di Montelepre. Parlai con tanta gente. Non vi immaginerete mai con quale difficoltà, perché una delle componenti del ghetto è la chiusura: non soltanto dall’esterno verso l’interno ma anche nel senso opposto. Parlai soprattutto con le famiglie di certi miei clienti della cronaca giudiziaria, persino, qualche volta, protagonisti di reati pesanti che raccontavano di violenze in famiglia e di roba così. E queste tesissime chiacchierate mi aiutarono molto a capire in quale contesto potessero maturare quelle storie. E come quel contesto si sarebbe potuto facilmente rimuovere se soltanto ci fosse stata la volontà politica. Ma non c’erano soltanto le emergenze criminali, a Montelepre. C’era soprattutto la solidarietà di gruppo, c’era una strana e grottesca gioia di vivere pur nella miseria, un ostentato mi n’affuttu che non era la cionfra sassarese ma qualcosa che non conoscevo, forse simile alla beffarda e disperata ironia dei bassi napoletani. Una volta mi invitarono a un fogarone di Sant’Antonio e fecero riportare indietro a me e al mio collega le cartate di affettato e le bottiglie con le quali ci eravamo presentati. Eravamo ospiti e da mangiare e da bere lo mettevano loro. Scoprii soprattutto, in quel bacino di sottoproletariato, una diffusa onestà di fondo, un principio che pure era facile immaginare: nessuno è volontariamente un fannullone e un delinquente. La stragrande maggioranza dei disoccupati – cioè quasi tutti – erano vittime dei pregiudizi dei potenziali datori di lavoro e si arrangiavano quindi con occupazioni precarie alle volte alle soglie della legalità. Vi ricordano qualcosa e qualcuno dei giorni nostri? Comunque, i pochi che riuscivano a ottenere un posto di lavoro stabile, spesso con gli incozzi dei carabinieri che assicuravano: “Guardi, glielo garantisco io, è una brava persona”, quei pochi se lo tenevano stretto, il lavoro, e portavano i soldi nella loro casa fredda, senz’acqua, con le stanze divise da coperte e altri stracci appesi ai fili tirati da un muro all’altro. Quando cominciarono le operazioni edilizie a Santa Maria di Pisa per portarli tutti lì, ne parlai con Salvatore Lorelli, dirigente comunista, che oltre a conoscere molto bene il popolo e ad amarlo, era uno che aveva straordinarie capacità di analisi. Fu il primo a dirmi ciò che negli anni successivi diventò un mantra. -Stanno creando una bomba sociale. Un ghetto vecchio a poco a poco si annulla, il gruppo viene assorbito. Ma qui stanno creando un ghetto nuovo che sarà emarginato in maniera ancora più spietata e durerà a lungo. E ora su questa antica storia di emarginazione e di stigmi mai rimossi hanno innestato un nuovo ghetto. Montelepre negro. Non so con chi prendermela, questa volta. Il comune non c’entra. Forse l’unica colpa dell’amministrazione è quella di non essersi opposta con l’energia necessaria. Ma, nell’emergenza degli arrivi, c’era il rischio che quei poveretti restassero senza un tetto. Il fatto è che questa è una tendenza nazionale: nascondere le “quote” sgradite di migranti dove già ci sono altri problemi aperti. Li nascondiamo alla società che conta. In un quartiere già emarginato e già pieno di problemi si notano di meno. E quindi i nuovi ghetti con i vecchi ghetti. La “bomba sociale” di Salvatore Lorelli.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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