«Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie». Sono alcune parole – molto lucide – di Michele che si è ucciso a trent’anni, ma non per un semplice male di vivere. Probabilmente perché si era stancato di fare sforzi senza ottenere dei risultati, stufo di sostenere dei colloqui di lavoro senza che nessuno lo assumesse, stufo di: “di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.» Così, davanti a questa lettera che i genitori hanno deciso di renderla pubblica, tutti hanno provato a dire qualcosa, provare a comprendere il male di vivere, quel vizio assurdo – per dirla con Cesare Pavese – che da sempre accompagna il genere umano dall’adolescenza in poi. Si sono uccisi in tanti: scrittori, poeti, cantanti (si ricorda in questi giorni il gesto di Luigi Tenco e la prossima settimana ci sarà una fiction su Dalida, anch’essa suicida) principi e attori. Difficile, se non impossibile, comprendere il perché dell’attimo, la scintilla assurda che fa dire ad un uomo “basta”. Eppure Michele è il personaggio del giorno non tanto per il gesto ma per le parole che hanno condotto al gesto: così ferme, reali, dure, schiette. Che fanno male a chi quotidianamente questa vita se la gioca. Michele ha voluto imprimere un’accelerazione e nessuno, credo, può costruirci una morale, può condannare o assolvere la decisione intrapresa da un ragazzo di trent’anni. Nessuno, se non Michele, può spiegare la vera molla che lo ha portato a spegnere la luce, al rifiutarsi di provare ad imboccare strade con molte curve. Però le parole restano e sono un macigno dentro un paese incattivito da anni, in preda alla crisi isterica, al pessimismo più cupo, ad un paese che non riesce ad avere una visione. Quella che è mancata, probabilmente, anche a a Michele, stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, di colloqui di lavoro inutili. Michele sperava in un mondo diverso e non era questo quello che immaginava. «Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi». Parole che ci portiamo dentro e che diventano un momento di riflessione come questa frase, ancora di Michele: «Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare». Questo ha sentito Michele: l’accantonamento, il sentirsi messo da parte, relegato a mera comparsa in un mondo dove tutti sgomitano per stare in vetrina. Infine Michele accusa tutti noi di avergli rubato la felicità. Tutti noi, nessuno escluso. Quella di Michele è la prima generazione in vera sofferenza. Noi apparteniamo a quella generazione che ha utilizzato tutto velocemente e non ha pensato a Michele e a quelli come lui. Il personaggio di oggi non è, dunque solo Michele, ma anche il nostro non saper ascoltare, non riuscire a comprendere, non poter dire ai nostri figli, come fecero i nostri genitori: «Tu stai meglio di noi». Ecco, dentro la morte di Michele si nasconde anche la nostra morte interiore, il dramma di una generazione – la nostra – che non ha saputo costruire e la debolezza di un’altra generazione – quella di Michele – che, invece, non ha saputo aspettare. Abbiamo perso tutti e tutti, io credo, in questa sconfitta siamo coinvolti.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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