Ti viene da dire che quella di Luigi Manconi è la post politica, la cultura dell’impegno dopo la crisi della politica. Meno male che però interviene il buon senso a suggerirti che una faccenda come la sua “voglia di fare politica” non può che avere radici al centro della terra e chiome a sfiorare il cielo. Non è dopo né prima. E’ l’albero. C’è sempre stato. L’Italia di Manconi è quella che ieri ha accolto con un applauso i migranti che sbarcavano a Porto Torres. Il nostro Paese, quello bello, quello che è esistito ed esisterà sempre. Ieri Manconi è stato protagonista di un tour de force sassarese. Prima all’Università con una importante conferenza sulla tutela dei minori nell’informazione. Poi alla Fondazione di Sardegna con la presentazione del suo ultimo straordinario libro: “Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica”. Ne ha parlato con il presidente del consiglio regionale Gianfranco Ganau e con il giornalista della Nuova Sardegna Roberto Sanna. Dal primo degli appuntamenti mi sono segnato: “La xenofobia, che non a caso vuole dire non odio ma paura dello straniero, trova alimento nell’anonimato, nella non conoscenza dei nomi e delle identità di una folla indistinta e anonima che percepisce come di invasori”. Ci avevate mai pensato che questa “sconoscenza” di chi cerca rifugio è alla base del timoroso rigetto che alligna anche nel migliore di noi? Proprio in tutti. Ovunque c’è un angolo oscuro. Anche in noi stessi. Manconi, rispondendo nel secondo appuntamento a una domanda di Roberto Sanna, ha citato il proprio libro con un sorriso : “C’è una battuta che non si sa bene se attribuire a Giorgio Gaber o Gian Piero Alloisio: non temo Berlusconi in sé ma Berlusconi in me. Ed è una battuta che può andare bene anche cambiando il nome in Salvini o in altri così”. Voleva dire che ciò che persone simili rappresentano non è “altro” rispetto a noi progressisti, noi antirazzisti, noi tolleranti. Noi, insomma. Quell’Italia che noi giudichiamo brutta non è “un’etnia distinta dalla nostra etnia”. E poi il concetto base: “Per esempio Bernardo Provenzano, criminale mafioso, ma ora soprattutto detenuto che vive in uno stato vegetativo. Io dico che lo Stato democratico è talmente forte che può decidere di liberarlo”. Avanti con i tempi? Eppure Manconi non fa altro che difendere strenuamente l’essenza antica dello Stato, di ogni Stato, cioè il patto con i cittadini che garantiscono la loro lealtà in cambio della loro incolumità: “E’ questo patto che forma lo Stato: e quando muore uno come Cucchi è come se lo Stato crollasse”. Ma per tornare a Provenzano, non esistono assassini o addirittura mostri come il norvegese Breivik che ha ucciso 77 persone. Il curriculum criminale vero o presunto non esiste nei corpi affidati alla custodia dello Stato. Quei corpi sono sacri a chiunque appartengano. Provenzano è un detenuto come gli altri, così come Breivik, quando è stato giudicato, era un cittadino sottoposto a giudizio che non poteva essere condannato a pene maggiori di quelle previste dalla legge, nonostante l’immensità del suo delitto. E’ questo il concetto che “la voglia di fare politica” di Luigi Manconi si sforza di rendere normalmente accettabile: spersonalizzando Provenzano e Breivik e difendendo i loro diritti in quanto detenuti o cittadini sottoposti a giudizio, in realtà non stiamo difendendo dei criminali ripugnanti, ma noi stessi. Che coraggio in questa voglia e in questo modo di fare politica. Ho pensato a quando qualche settimana fa, proprio ispirandomi a Manconi, su SardegnaBlogger ho commentato favorevolmente la sentenza di un tribunale norvegese che stabiliva che erano stati violati i diritti del detenuto Breivik. Nessun maltrattamento, anzi. Ma la direzione del carcere non gli avevo concesso qualcosa che gli spettava. Ho detto che in questo modo lo Stato aveva dimostrato tutta la sua naturale superiorità rispetto a quel mostro trattandolo alla stregua di un comune cittadino detenuto. Sui social sono stato sommerso di critiche, i commenti erano tutti all’insegna di “se l’avessero dato in mano a me altro che…”. Ho lasciato perdere, mi sono sentito impotente, minoritario, velleitario. Incapace di difendere un principio al quale credo, ma così impopolare e difficile. Ecco la differenza tra un comune cittadino come me che semplicemente ha delle opinioni e un combattente come Manconi. O i rom, per fare un altro esempio: “Credete – dice Manconi – che per me siano un modello di vita e di comportamento? Ma so che battermi per loro significa battermi per la mia dignità. Battendomi per i portatori di handicap, gli immigrati o i detenuti mi batto per i miei figli, che non sono né portatori di handicap, né immigrati, né detenuti”. E l’impegno politico che cos’è? Ecco un esempio. “Dopo tante manifestazioni e prese di posizione insieme ai genitori di Regeni, quando ormai la gente mi identificava con loro e con quel caso, due coniugi mi avvicinarono con un atteggiamento cordiale, affettuoso e mi chiesero: Ma tu, Luigi, politicamente cosa fai? Perché, chiedere la verità su Regeni non è fare politica?”. Il fatto è che Manconi, come spiega nel suo libro, si interessa di faccende che riguardano la sofferenza umana e la difesa dei diritti umani. Roba che il novanta per cento del suo partito “e il cento per cento del suo gruppo dirigente” non ritengono di natura politica. E invece per lui sono le cose più “politiche” del mondo: “Quelle da cui partire per un rinnovamento radicale della politica. Semmai questo rinnovamento fosse possibile”.
Nella foto in alto, da sinistra, Luigi Manconi, Roberto Sanna e Gianfranco Ganau discutono del libro di Manconi “Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica”.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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