Così come la scuola insegna a leggere, scrivere e far di conto, allo stesso modo la scuola dell’obbligo dovrebbe insegnare ai bambini come si coltiva un orto, come si lavora la terra, le basi individuali dell’autosufficienza alimentare. Quando e come si piantano pomodori, melanzane e zucchine, come si cura la loro crescita, la consapevolezza delle stagioni e la conoscenza della terra. L’ho già scritto e forse i più attenti lo ricordano: tempo fa avevo pubblicato su Sardegnablogger la proposta di una legge che rendesse obbligatori gli orti didattici, in modo che ogni scuola ne abbia uno. Forse non serve neppure una legge ma basterebbero iniziative ad un livello istituzionale inferiore, ma che sia il Parlamento ad occuparsene sarebbe, secondo me, un atto fortemente simbolico. Nei programmi dei piccoli Comuni sempre più spesso appare la voce “orti civici”, cioè aree pubbliche affidate gratuitamente a chi voglia piantarci qualcosa. Sarà anche l’onda lunga propagatasi dall’America con l’esempio di Michelle Obama, che il suo orto se lo curava anche alla Casa Bianca, facendo apparire alla moda una delle più antiche attività umane. Una generazione prima della mia, era abbastanza consueto trovare maestri e maestre delle elementari che portavano nei cortili delle scuole gli alunni e insegnavano l’arte dell’orto. Io, invece, non ho avuto maestri che me lo insegnassero: eravamo già entrati nella fase storica che considerava l’agricoltura una specie di ghetto, da lasciare solo a pochi e sfortunati addetti ancora disposti a spaccarsi la schiena piegandola sulla terra. Mio babbo mi portava alla vigna ogni fine settimana e mi faceva innaffiare l’orto di casa ogni sera d’estate, ma in zucca (per restare in tema) non mi è rimasto nulla. Eravamo tutti convinti di risolvere la vita dietro una scrivania e non ci sarebbe servito sapere altro. Oggi ci siamo ricordati che della terra non possiamo fare a meno e trovare una relazione consapevole con lei è indice di sapere, molto più di una citazione colta estrapolata da un libro prestigioso. Confesso che queste considerazioni sono in qualche modo suscitate dal vedere mio figlio appicciato agli schermi di tablet e smartphone per gran parte della sua giornata, ostaggio di una realtà virtuale sempre più allucinante. La zappa potrebbe essere un buon sistema per tornare alla vita reale. Non come forma punitiva, ma come scoperta del mondo.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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