Il supermercato sotto casa mia è uno dei punti fermi e positivi della mia esistenza. Ho conosciuto quell’area quando era ancora un enorme spazio recintato tra palazzine da demolire e palazzoni in costruzione. Per noi bambini appena trasferiti dal centro storico, dove si viveva in strada, in questo quartiere più caotico dove la strada era meno familiare, quell’area era una specie di piccola patria, tipo il deposito di legname dei Ragazzi della via Pal. C’era una betoniera rugginosa dentro la quale nascondevamo di tutto e intorno alla quale ci riunivamo per prendere decisioni sulle quali sorvolo nel caso che i reati relativi non siano caduti in prescrizione. Quando quello spazio venne occupato dall’allora più grande market di Sassari ero già abbastanza grande per non sentirmi più un ragazzo della via Pal mutilato di un pezzo di infanzia. E abbastanza maturo, inoltre, per apprezzare il modo in cui quella catena locale portò Sassari a godere dei vantaggi del grande market senza perdere tutto ciò che in termini di qualità e di cortesia ti offre il piccolo negozio di generi alimentari. Nel market, nonostante la lunga fila di casse in perenne lavoro, la folla di clienti e il numeroso personale, la seconda o terza volta che ci mettevi piedi ti riconoscevano già come cliente e trovavano il tempo di dedicarti un sorriso o un consiglio. Quando dalla catena sassarese si passò a una delle più importati e qualificate catene nazionali, pochi anni fa, il quartiere era quindi giustamente preoccupato che in termini di cortesia, prezzi e qualità molto potesse cambiare. Con generale sollievo, invece, nonostante si fosse passati dalla dimensione locale a quella globale, tutto è rimasto come prima. In certi casi anche meglio di prima: qualità, prezzi e cortesia. Io gli darei addirittura un premio straordinario per la tolleranza e l’efficienza con la quale il personale gestisce il rapporto con i numerosi immigrati che si guadagnano da vivere agli ingressi offrendo ai clienti piccoli servizi solitamente di trasporto della spesa fino all’auto o a casa. Faccio questa premessa per dire che sono un vecchio e affezionato cliente discendente da vecchi e affezionati clienti. E mi posso quindi permettere di chiedere un piccolo favore. Toglietemi quella gigantografia di scorfano morto che campeggia nel supermercato da quando avete inaugurato il banco del pesce fresco. Io non mi occupo di acquisti importanti come pesce o carne, ci pensano altri componenti della mia famiglia i quali mi dicono che anche in questi settori il rapporto tra qualità e prezzo è ottimo. Ma purtroppo io sono uno di quegli ipocriti che, anche se mangiano pesce, non riescono a pescarlo per vederlo poi boccheggiare in un secchio nell’angolo del pozzetto della barca. In quanto alla carne, è lo stesso. Mio padre era medico condotto e le galline o gli agnellini regalati dai pazienti erano parte importante e irrinunciabile della nostra alimentazione. Babbo mi insegnò a torcere il collo a una gallina, così, senza troppi problemi, come è necessario che impari a sbucciare un’arancia se te la vuoi mangiare. Senza alcun compiacimento, anzi accarezzando la bestia un pochino sul dorso, per calmarla. Poi un movimento improvviso del polso, la morte immediata e alle volte una gocciolina di sangue che faceva capolino dalla piega del becco. Per l’agnellino doveva essere qualcosa di più impegnativo perché babbo non me lo insegnò mai e infatti non so come si faccia. Lui, quando arrivava il momento, si appartava e tornava a farsi vedere quando quella non era più la bestiola che per un paio di giorni ci aveva saltellato intorno seguendoci in tutta la casa (Lo sapevate? Gli agnellini sono più coccoloni dei cani e dei gatti), ma della irriconoscibile carne già macellata. Ora se mi doveste chiedere come prova di coraggio di tirare il collo a una gallina, vi manderei a quel paese. Quel senso di necessità e quella naturale spietatezza dei bambini che allora mi rendevano facile il compito ormai non ci sono più. Non sono vegetariano però apprezzo quelli che lo sono non soltanto per un fatto salutistico ma anche etico. Forse ci arriverò anch’io. Capisco sempre meno chi uccide gli animali. Ma evito di rompere le balle. E quindi è soltanto perché in questo supermercato mi considero uno di famiglia che mi permetto di chiedere: fate scomparire la gigantografia di quel pesce morto. Io d’estate faccio nuotate di ore e ore al largo con i miei occhialini. E sono così belle quelle bestie quando le vedo vive. Non vi voglio dire di non esporli sul banco, non sono scemo. Lì sono cibo, è una cosa diversa, sembrano avere perso la loro essenza di creature. O fingo di crederlo perché so che tra un po’ ne mangerò qualcuno. Comunque è tutto più sopportabile, quasi normale per uno dei tanti ipocriti come me. Ma la foto no. Se vedo la foto li vedo proprio cadaveri. E’ un po’ difficile da spiegare. Se vedo una mucca che pubblicizza una marca di burro, apprezzo la foto. Ma se è legata a un allevamento per la produzione di carne, allora mi fa un po’ di impressione. Immaginatevi poi cosa sia la foto di una mucca intera morta. Voi foto di mucche non ne esponete. Ma quello scorfano, seppure è uno scorfano, non me ne intendo, mi fa impressione. Se non potete sostituirlo con la foto della frutta da cui si fa una delle vostre ottime confetture o semplicemente con l’elenco dei prezzi del banco del pesce unito alle qualità in offerta (che sarebbe la vostra più formidabile pubblicità), allora pazienza. Certamente i nostri rapporti non cambieranno per questo: quando passo davanti alla foto volgerò lo sguardo da un’altra parte.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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