Domani, 17 febbraio, sarà passato un quarto di secolo dall’esplosione dell’inchiesta Mani Pulite. Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, viene colto dal pubblico ministero Antonio Di Pietro mentre cerca di intascare una mazzetta. Bettino Craxi, padrone del Partito socialista cui Chiesa apparteneva, lo liquida come “mariuolo”, lasciando intendere che si tratti di un caso di corruzione isolato. Da quel momento, l’indagine travolge tutto e tutti, come un’onda di piena: il sistema dei partiti viene raso al suolo, gli imprenditori più strettamente connessi a quel sistema finiscono in cella o scelgono il suicidio, l’opinione pubblica trova nei magistrati del pool i nuovi eroi civili di un paese che, a leggere le carte giudiziarie, si scopre marcio. A Bettino Craxi, il simbolo di quell’Italia, viene affibbiato l’appellativo di “Bottino”: finirà i suoi giorni da latitante e la sua figura resta sospesa, a cavallo tra riabilitazione commossa e indignazione.
Come ben sappiamo, Mani Pulite non fu solo un’indagine giudiziaria: fu una rivoluzione, fu il colpo di grazia inferto alla Prima Repubblica che si sgretolava assieme al muro di Berlino, fu l’impietosa immagine dello stato della nostra classe politica, corrotta e arrogante. Avevo vent’anni e posso dire di essermi formato politicamente con quell’inchiesta. Meglio, con quell’inchiesta mi sono formato un’idea della politica. Ma oggi, che ne ho 45, non la rimpiango. Rimpiango forse quel clima da rivoluzione, ma non quel che ne è seguito e le conseguenze propagatesi sino al presente di quel crocevia storico. Non rimpiango la tesi secondo cui con un’inchiesta giudiziaria si possa fondare uno Stato nuovo. Il magistrato in politica, che mi era sembrato una soluzione quasi obbligato, oggi lo leggo invece come una delle tante declinazioni del tanto invocato “uomo forte”. Sia chiaro, i pilastri su cui si reggeva l’inchiesta erano inattaccabili: le mazzette, gli appalti gonfiati e pilotati, il saccheggio delle casse dello Stato erano cosa verissima e provata. E la magistratura fece quel che per troppi decenni aveva omesso di fare. Parlò di magistratura politicizzata solo chi aveva interesse a difendere quel marciume, al netto di qualche inevitabile ed umano eccesso da parte di chi quell’inchiesta la condusse. “Ma questa è una pacchia, un godimento fisico, erotico. Quando mai siamo stati tanto vicini al sollievo? Che Dio salvi Di Pietro!”, scriveva nel 1992 Vittorio Feltri, da direttore dell’Indipendente. Quindici giorni dopo, Feltri passò a Il Giornale di Berlusconi e iniziò a scrivere l’esatto opposto, iniziando uno sfibrante duello personale con il pool di Mani pulite. Aldilà di questi cambi di fronte interessati, dobbiamo chiederci oggi cosa abbia prodotto quell’inchiesta nel rapporto tra gente e istituzioni. Non era compito dei magistrati creare il dopo, inteso come una società che metabolizzasse quegli errori per migliorarsi. Comunque sia, quel risultato non è stato raggiunto. La corruzione resiste, la selezione naturale della classe dirigente nei partiti è stata sostituita con i casting davanti alle telecamere ma, soprattutto, l’antipolitica e l’indignazione sterile soffocano tutto. La sfiducia verso chiunque scelga l’impegno nelle istituzioni, il “tutti ladri”, prevalgono su ogni forma di politica costruttiva. Credo ci siano anche gli effetti di quell’inchiesta dietro tutto questo. Non per colpa di chi quell’inchiesta l’ha condotta, ma per colpa di come noi l’abbiamo voluta intendere, del significato che gli abbiamo attribuito. “La seconda Repubblica ha i difetti della prima senza averne i pregi”, sintetizzò mirabilmente Indro Montanelli. Montanelli, proprio quel giornalista che perse la sua direzione a Il Giornale perché l’editore Berlusconi volle sostituirlo col suddetto Feltri. In questa piccola faccenda, a ben guardare, si trova ogni spiegazione del dopo Mani Pulite e di come il sistema abbia saputo rinnovare se stesso senza arretrare di un millimetro.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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