Di Maria Dore
Quando accadono cose come quelle di Dakha, possono sopraggiungere due tipi di riflessione, entrambe doverose e non in contraddizione l’una con l’altra.
La prima è quella dettata dall’immediata e spontanea incredulità davanti al copione che ci si compone davanti attraverso la mediazione dei mezzi d’informazione: l’assalto, il solito ridicolo proclama “Dio è grande”, il fuoco, la morte, la rivendicazione. Questa prima e necessaria riflessione non può non tradursi in una condanna. Un pezzo derivato da quest’analisi è già comparso oggi su Sardegnablogger, con la firma del puntuale Giampaolo Cassitta. Pertanto, utilizzerò le righe a mia disposizione per tentare di esporre il secondo ragionamento possibile. Perché se è doveroso piangere chi muore sotto i proiettili di chi dice di appartenere ad un dio, è doveroso chiedersi cosa, perché e come, oggi, circa 300 italiani abbiano deciso di mettere in valigia la sapienza di un settore che ha reso grande il paese-il tessile- e portarsela in Bangladesh. Io non so di preciso cosa facessero a Dakha le nove vittime italiane dell’attentato, tutte attive nell’industria tessile. Possiamo però sapere qualcosa del Bangladesh, sapere cosa sia e cosa non sia; il Bangladesh non è un paese dell’est Europa. Il Bangladesh è il secondo paese più povero del mondo dopo Haiti. Nonostante la crescita del suo Pil sia attestata al 6,7% per l’anno in corso, il 31% della sua immensa popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, il 56% dei ragazzini di 15 anni lavora e il tasso di mortalità infantile è del 31 per mille. Questi dati sono i peggiori tra i paesi dell’Asia meridionale. Fabbricare una maglia per Armani o per la più democratica Zara a Dakha o a Cittaghong significa, se sei un bengalese, guadagnare intorno ai 95 dollari al mese, il che fa di te un lavoratore dal salario tra i più bassi del mondo e nell’ottica dell’imprenditore senza scrupoli, sei più conveniente di un operaio cinese. Ricorderete la strage del 2013, in cui centinaia di lavoratori morirono nel crollo dell’edificio Rana Plaza. I riflettori si accesero, brevemente, sullo sfruttamento nelle fabbriche nel paese. Oggi il Bangladesh è tornato alla ribalta per un presunto attacco jihadista. Io vorrei che gli italiani in Bangladesh non avessero nulla a che fare con posti come il Rana Plaza e paghe da venti centesimi all’ora. Esattamente come i presunti ragazzi di buona famiglia che hanno sparato all’impazzata non avessero nulla a che fare con l’islam e qualsiasi religione.
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