In Sardegna, soprattutto in Gallura, esiste questo strano fenomeno etologico. Mandrie di bovini che, a causa della morte del vecchio proprietario, vengono abbandonate dagli eredi, che non hanno interesse a curare quel patrimonio, e finiscono per diventare selvatiche. Gli ultimi, vecchi abitatori degli stazzi sparpagliati per il territorio, lasciano così alle intemperie un cospicuo patrimonio immobiliare, terreni, boschi, stazzi, attrezzi e, appunto, animali. Si percorre dunque, per alcuni chilometri, una strada di campagna, fino a raggiungere un gruppo di vecchi stazzi abbandonati, dall’aria padronale. Si segue allora, a piedi, per alcuni chilometri, una vecchia carrareccia ormai disastrata, che si inerpica in mezzo ad un boschetto ricresciuto da poco, fino allo stazzo, anch’esso, ovviamente, abbandonato, che si trova in un pianoro, una prateria, lassù, in cima, coronato a sud, da guglie gigantesche dalla mirabili forme acuminate, e a nord dalle tipiche conformazioni granitiche, quelle con i lecci abbarbicati tra le rocce. Attorno, il panorama. Uno scenario che ti concilia con il respiro, che spazia fino al mare e a boscaglie lontane. L’orecchio percepisce, verso quelle gigantesche guglie, il rumore di un corso d’acqua laddove la vegetazione da macchia ritorna a farsi bosco. Si attraversa la prateria e ti dirigi verso quel rio, facendo attenzione a non essere incornato, che le vacche selvatiche sono un po’ aggressive, per non parlare del toro. Eccolo là, un vitellino, che come ci vede fugge inoltrandosi nella macchia. Ed ecco il rumore di frasche, che si muovono, ed ecco la sagoma scura di un bovino, pronto ad avvicinarsi. Meglio girare di tacchi. Quando ci sono i vitelli nelle vicinanze, caricano senz’altro. Passando di fronte a quelle che dovevano essere stalle o autorimesse, scopriamo un trattore d’epoca, di almeno 60 anni fa, tutto arrugginito ma integro nella struttura e nel fascino. Penso che si potrebbero persino studiare, scientificamente, quelle vacche così abbandonate, per capirne la nuova etologia, come si riproducono, cosa mangiano, che interazioni hanno instaurato con quella prateria che sembra rinnovarsi naturalmente, come nella savana, in simbiosi con il bestiame. Ma la riflessione scientifica lascia il passo a quella sociale e al pianto che ne consegue di vedere l’abbandono di una intera cultura, quella degli stazzi, e di un territorio che non posso credere non abbia ancora un valore economico. Il fatto è che nel giro di 20 anni, dal ’60 all’80, il mondo è cambiato al punto da rinnegare quella che per diecimila anni era stato il nostro sostentamento, l’agricoltura. L’agricoltura e la terra, oggi, ci sono estranei completamente. Non sappiamo più distinguere un carciofo da un leccio, una rapa da una ginestra, un cavolfiore da una pietra. L’agricoltura è stata dipinta come una roba del passato, puzzolente e sporca. Dinamiche economiche e mercantili hanno reso il lavoro della campagna poco redditizio ed economico. E le due cose, tra di loro, sono collegate. Lo spopolamento dei paesi non è altro che la conseguenza di questo fenomeno. Si cerca di far produrre la campagna, ma non è facile. I giovani scappano via e, con molta tristezza, spesso preferiscono la precarietà o addirittura la disoccupazione ad un lavoro incerto e senza garanzie come quello di mettere in piedi una azienda agricola. Anche se le statistiche segnano per la prima volta, dopo mezzo secolo, una inversione di tendenza, con un ritorno alla terra, su basi moderne, dei giovani. Non sarebbe male rivedere gli stazzi ristrutturati e il territorio nuovamente presidiato. La cultura dello stazzo come antenata di moderne forme di agricoltura, le stesse che stanno prendendo piede, oggi, come una nuova filosofia di vita, permacoltura, agricoltura sinergica e biologica, e così via. Tutte cose che, i vecchi abitatori degli stazzi, facevano senza sapere di essere filosofi all’avanguardia.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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