Martino, Quirico, Salvatore sono tre albergatori nati e cresciuti nel mio paese, titolari di hotel tra la Costa Smeralda e Cannigione. Questi alberghi hanno una cosa in comune: sono stati costruiti a meno di trecento metri dal mare, nel pieno rispetto delle leggi che vigevano al tempo. Non sono attività gestite da remote multinazionali che catapultano gran parte dei profitti in Paesi lontani, ma imprese avviate e gestite da famiglie del posto che, con le unghie e con i denti, cercano di rimanere competitivi nel mercato turistico. Io mi chiedo: se per mantenere questa competitività Martino, Quirico e Salvatore non vedessero altra soluzione se non l’adeguamento del loro albergo, aggiungendo una piscina coperta o un centro benessere alla struttura, sarebbe giusto impedire loro qualunque intervento, benché minimamente impattante? Se Martino, Quirico e Salvatore decidessero di investire nell’aggiornamento delle loro strutture per tenerle aperte per due o tre mesi in più, o magari per tutto l’anno, sarebbe sensato impedirglielo, quando da decenni cerchiamo inutilmente di allungare la nostra stagione turistica? Nomino questi tre imprenditori – potrei fare tanti altri nomi – per introdurre il personaggio del giorno: la tanto discussa legge urbanistica che ha infranto il tabù del cemento a meno di trecento metri dal mare Il post Facebook sul tema del presidente Pigliaru ha scatenato una reazione civile, ma comprensibilmente molto ferma. Anche dentro la nostra redazione esistono, sulla questione, sensibilità diverse. Ho sempre sostenuto che il cemento buttato a caso sui litorali, senza piani integrati e ipotesi di ricadute stabili sul territorio, serva solo a distruggere la nostra principale arma nel mercato turistico: l’ambiente. Dunque, quando per la prima volta ho sentito parlare di una legge che avrebbe sdoganato il cemento a meno di trecento metri dal mare, mi sono cadute le braccia. Poi, però, ho cercato di comprendere lo spirito di questa nuova normativa, mettendomi nei panni di Martino, Quirico e Salvatore. Non si tratta di riempire di cemento le coste, ma di aggiornare il patrimonio edilizio esistente. Non si parla di nuove camere – figuriamoci: non riusciamo neppure a riempire quelle esistenti – ma si parla di adeguare hotel inaugurati decenni fa. Certo, sono interventi che vanno valutati con molta cura e attenzione, ma io credo anche senza pregiudiziali assolute. Se vado a fare la settimana bianca, in Trentino o Valtellina, ben difficilmente troverò un albergo privo di piscina coperta o centro benessere. Quelli che non li hanno, sono inevitabilmente fuori mercato. La clientela chiede questi confort, piaccia o no. E può cambiare destinazione, se non li trova. Quando, nel 2009, il Comune di Arzachena rilasciò le licenze edilizie per l’ampliamento e la ristrutturazione dell’hotel Romazzino, costruito sul mare negli anni sessanta, nessuno ebbe dubbi sulla necessità di ammodernare una costruzione che mostrava chiaramente i segni del tempo, dotandolo di piscine coperte e centri benessere per favorire periodi di apertura più lunghi. Qualcuno potrebbe obiettare: i periodi di apertura, anziché dilatarsi, sono diminuiti. Vero, ma perché i programmi dell’investitore, in corso d’opera, sono misteriosamente cambiati. Ben difficile che piccoli imprenditori locali possano avventurarsi in investimenti così importanti tradendone spirito e finalità. Si parla, insomma, di riqualificazione. Credo sia lo stesso spirito dell’operazione immobiliare messa in atto nelle coste del Sulcis da Renato Soru, padre del Piano paesaggistico, ben difficilmente etichettabile come cementificatore. Quel Piano paesaggistico contro il quale, per anni, si è riversato l’odio accecante di gente che oggi chiama alle armi contro la cementificazione delle coste.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo e-book "Cosa conta".
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