Il pubblico, assiepato ai lati della strada, fece silenzio. Il suono ritmato di campanacci si fece sempre più vicino, fino a farsi rumore cupo, forte, sempre più forte, assordante. Il pubblico, scrutando nella nebbia, cominciò a sentire l’inquietudine, una emozione crescente che pareva poter travolgere i confini dell’immaginario. Poi, improvvisamente, apparvero nella nebbia quelle maschere nere, grottesche, deformi, ognuna con la sua smorfia di dolore e fatica. Con la cautela che accompagna la scienza, si è cercato di dare una spiegazione all’origine di questa pantomima che si perde nella notte dei tempi. Rito pagano legato al ciclo delle stagioni, rievocazione storica, celebrazione dionisiaca, processione totemica, esorcismo del rapporto tra uomo e animale addomesticato. Le congetture sull’origine di questa maschera si sovrappongono, alimentando il mistero che si somma al fascino che già di per sé promana. Niente di più cupo, inquietante, pastorale e barbaricino, profondamente e inequivocabilmente sardo, verrebbe da dire. Verrebbe da dire, se si potesse, che la fissità che accompagna questa maschera, tenuta a freno da quella più colorate e “moderna” degli Issohadores, non può che provenire dal lontano magma oscuro dei millenni nuragici e pre-nuragici. Se si potesse dire. Ma non si può, specie ora che spettacolo e turismo ne hanno modificato la funzione. Di certo c’è quel nome, Mamuthones, che in Sardegna, con diverse denominazioni, indica lo spauracchio, l’uomo nero, il “mommotti”. Insomma il maometto, il mohamed, l’inveterata paura delle incursioni barbaresche che, nella storia, hanno condizionato il rapporto tra i sardi e il mare. Il Mamuthone sembra dunque aver attraversato i millenni, il ciclo delle stagioni, i campi riarsi e le piogge copiose, gli spiriti del bosco e della notte, le solitudini, gli amori e le guerre. Ma personaggio della storia è il Mamuthone? Oppure esso non è altro che la rappresentazione più potente e istrionica dell’eterna lotta interiore tra la nostra bestialità e le regole della società? Osservatelo mentre si dimena, mostruoso, in quell’ordine preciso, scandito dal battito sincopato. Il Mamuthone è un archetipo. L’animale preme per uscire dal guscio. La trasformazione dell’umano in bestia è cominciata, indossiamo la maschera scura di legno duro, la pelle si trasforma in pelliccia, un ghigno beffardo e muto compare sul nostro volto. Il Mamuthone è dunque eterno, racchiude in sé la storia dell’umanità intera, il versipellus, il lupo mannaro, l’incubo notturno, Dr Jeckill e Mr Hide, il vaso di Pandora, il pentolone ribollente dei nostri istinti, regolati e ammansiti dalla civiltà, dalla divisa ben curata e colorata e dalla maschera cangiante e inespressiva dell’Issohadore. Ci fa paura, il Mamuthone, ci fa paura e ci inquieta. Tutto la nostra storia evolutiva, milioni di anni, tutto il percorso dalla bestialità incontrollabile alla civiltà, sta dietro quella maschera beffarda, costretta come animale in gabbia. E tutto questo, tutta questa mirabile rappresentazione del nostro conflitto interiore, si può osservare, come catarsi e come spettacolo, come introspezione e come scandaglio profondo della propria umana essenza, nei giorni di carnevale, a Mamoiada, in Sardegna.
FOTO ALESSANDRO CINUS
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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