Gianni Morandi afferra il telefonino, pigia sul tasto live e improvvisa una diretta dalla terrazza dell’hotel di Carloforte che lo ospita. Col sorriso tirato e la faccia segnata di chi gli anni inizia a sentirli, prova a raccontare il Sulcis. La Sardegna in fondo a destra, per chi viene dal nord, Morandi l’ha conosciuta solo da qualche giorno, da quando sta girando le scene della fiction di cui è protagonista. Commenta i messaggi che la sua gente gli spedisce durante la diretta usando parole semplici, dicendo cose normali che a tanti potranno sembrare banali, scontate, magari insopportabilmente melense. Accenna alla possibilità di una sua permanenza in Sardegna più lunga di quel che l’impegno professionale gli imporrebbe.
Molti lo accusano di indossare una maschera popolare per compiacere il suo pubblico popolare, imputandogli sotto sotto di essere complice dello sperpero di 500 mila euro investiti dalla Regione Sardegna per questo sceneggiato. Morandi non ci tiene ad essere un fenomeno, vuole essere un uomo comune in tempi competitivi in cui tutti vogliono emergere dimostrando di essere più intelligenti, acuti, colti e brillanti di altri. Ostenta con naturalezza e orgoglio al sua ordinarietà, Gianni Morandi. Da cinquant’anni piace per questo. E la sua genuinità piace anche a me, mi piace molto più della sicumera e della prosopopea di certi professoroni convinti di avere le verità in tasca, il cui snobismo mi risulta di giorno in giorno sempre più indigesto.
Mi piacciono le sue buone maniere, la sua educazione, il suo sforzo per non essere mai sopra le righe. Mentre scrivo, quel video in diretta dalla terrazza dell’albergo di Carloforte ha avuto 165mila visualizzazioni e 1600 condivisioni e chissà quanti, tra quelli che lo hanno visto o rilanciato sulla loro bacheca Facebook, avevano mai sentito parlare di Carloforte, Sulcis, Chia, Sant’Antioco.
Vent’anni fa, Gianni Morandi andò insieme ad un amico a visitare i piccoli pazienti di un ospedale di Padova. Tra loro c’era anche un bambino di Buddusò, Antonio Miletta, travolto qualche mese prima da un’auto, mentre giocava per le vie del paese in una sera d’estate. Gianni incontrò il piccolo Miletta, fecero delle foto assieme e lui firmò l’immancabile autografo. Quattro anni fa Antonio è mancato, dopo una vita su una sedia a rotelle. Nello scorso dicembre è stato dato alle stampe un libro (“Il dono più grande”, edizioni Taphros) in cui sono state gioiosamente riassunte le immagini del passaggio terreno di questo sfortunato ragazzo: gioiosamente, perché nel bilancio tra felicità e dolore quell’esistenza troppo breve è finita comunque con un saldo in attivo. Quando la famiglia ha saputo che il cantante di Monghidoro era sbarcato in Sardegna, ha cercato di mettersi in contatto col suo entourage per fargli avere il libro. Due giorni, prima che ai Miletta arrivasse l’indicazione con un indirizzo cui spedirlo. Su espressa volontà di Gianni Morandi, che certo non si ricordava di Antonio Miletta ma, da persona normale, non ha mai dimenticato quanto poco basti per far felici altre persone normali.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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